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Lo spazio e la cura

La maestra Angela che abita la sua aula come fosse una casa è un esempio recente e lampante di quello che può significare vivere in uno spazio che “ha cura”: un luogo che ci affranca, che ci dà pace e sicurezza, ci fa ritrovare in noi e che ci dispone alla relazione. Si tratta di un’aula senza cattedra dove la maestra siede in mezzo ai bambini e che è arredata come se fosse una casa.

Ci sono tende, cuscini, tazze, piante, cesti porta giochi. C’è anche un angolo morbido, dove le storie si raccontano seduti per bene, comodi, per far sì che i pensieri entrino meglio. Siamo a Genova, dove Angela Maltoni, maestra all’Istituto Comprensivo Cornigliano, ha costruito il suo speciale angolo didattico.
«Ho sempre avuto aule variopinte e ricche di materiali – spiega – ma dall’anno scolastico 2008/2009, quando ho dato vita al progetto di sperimentazione didattica “Insieme per un futuro più equo”, ho allestito l’aula seguendo, in parte, le teorie di Celestin Freinet che coinvolgono attivamente i bambini nelle azioni didattiche. Il mio progetto prevede attività di bilinguismo, plurilinguismo e l’insegnamento secondo un curricolo interculturale in cui le differenze diventano risorsa di arricchimento reciproco. Questo ha reso necessario sfruttare anche le pareti, decorate con grandi cartelloni di alfabeti in varie lingue. Aver abbracciato scelte pedagogiche e didattiche diverse è stato il motore di tante piccole ‘rivoluzioni’ nel modo di insegnare. La scelta del metodo naturale per l’acquisizione della lettura e della scrittura e l’adozione alternativa al libro di testo hanno reso necessaria la creazione di uno spazio-biblioteca multiculturale all’interno dell’aula, con testi in tante lingue e la predisposizione di scaffali dedicati a custodire oggetti stimolanti per la scoperta della scrittura. La scelta inoltre del metodo narrativo e la proposta, ogni giorno, della lettura di un libro come avvio alle attività, ha portato alla creazione di un angolo morbido, con tanti cuscini colorati dove i bambini si siedono in cerchio, ascoltano il racconto ad alta voce e affrontano momenti di conversazione e discussione.

10689692_300731516782551_5653987404764188117_nUn ampio spazio raccoglie i pupazzi e le marionette che vengono utilizzati non solo per il gioco libero ma anche per le drammatizzazioni, utili a far venire fuori i vissuti personali. La scelta di lavorare in gruppo e in modo cooperativo determina la disposizione dei banchi a isole e l’assenza della cattedra. Il materiale didattico come penne, matite, colori, gomme, è in comune, e viene disposto sulle isole in contenitori e usato liberamente da tutti. I bambini della mia classe sperimentale provengono da tante parti del mondo e si portano dietro la ricchezza di lingue e culture diverse. Questa modalità di lavorare in gruppo e di avere spazi liberi e coinvolgenti a disposizione li aiuta a socializzare più in fretta e a imparare ad apprezzare le diversità. La condivisione del materiale scolastico li abitua a una convivenza partecipata e accettata in cui tutti si sentono uguali».

Le “tante, piccoli rivoluzioni” della didattica hanno così inciso e condizionato lo spazio, che è diventato “casa”, una casa dove gli alunni di Angela imparano meglio, socializzano meglio, escono dalle lezioni senza traumi e nervosismi. Certamente il loro apprendimento risulterà migliore, e alla fine tutta scuola risulterà migliore.

Un cura dello spazio che ci piacerebbe pensare in ogni circostanza pubblica: gli uffici, le banche, gli ospedali!

Già, proprio e s10521756_300731550115881_1780054947750474467_noprattutto gli ospedali, dove, come scrive Ida Farè -che è stata docente di Architettura al Politecnico di Milano- nel libro “Abitare la cura: riflessioni sull’architettura istituzionale” a cura di Sergio Marsicano, «si vive come in un altro mondo: camere asettiche, arredi gelidi e metallici, mobili immobili, finestre che non si aprono, bagni senza specchio, squallide stanze di attesa con quelle seggioline di plastica in fila lungo le pareti, dove ogni visitatore siede come messo al muro e dalle quali in cuor suo spera di allontanarsi al più presto. Insomma pare proprio che lo spazio sia la cenerentola dei luoghi di cura e che l’architettura sia una parente lontana e sconosciuta nei luoghi di malattia.»

Eppure, se guardiamo, fin dal 1860 c’era una attenzione in questo senso: Florence Nightingale, fondatrice della moderna assistenza infermieristica nel suo “Note sulla Cura” dedica un intero capitolo al letto d’ospedale che deve essere basso, di ferro, scostato dal muro da entrambi i lati, e non lontano dalla finestra in modo che il malato possa vedere fuori. Un altro capitolo parla della luce, di quale sia l’esposizione migliore, e che si lasci entrare il sole. Scrive: «Una leggera cortina bianca al capezzale e alla finestra una stuoia verde che si possa calare a volontà sono più che sufficienti perché dove è il sole là è il pensiero

Frequentando le strutture ospedaliere possiamo invece ben notare che «proprio quando il corpo è fragile e bisognoso, tutto ciò che fa sentire bene e a nostro agio dentro lo spazio della casa viene totalmente dimenticato e come la vita dei pazienti sia determinata esclusivamente dalle logiche dettate dalla terapia in spazi sgombri, freddi, a volte abbandonati e comunque organizzati soprattutto in funzione delle attività di lavoro del personale medico.» (cit. Ida Farè)

Noi crediamo fermamente che poche esperienze di vita siano significative per l’esistenza, quanto l’abitare, crediamo che Casa significhi tracce, cura, atto magico, spazio “desiderato”, una vera risorsa che permette di ancorarsi a situazioni piacevoli, ricordi ma anche nuovi stimoli e quindi nuove opportunità, crediamo che Casa sia – in sostanza – il mantenimento della propria identità, che lo spazio vissuto non sia una scatola vuota e che abitare non significhi semplicemente “stare in un luogo”, ma anche costruire delle relazioni significative, dei rapporti con persone ed oggetti (in genere gli oggetti che l’abitazione contiene e custodisce sono le cose che si amano e che si sono scelte) che però, evidentemente, 1398901_193219354200435_642436949_osembrano incompatibili proprio con la coatta esperienza ospedaliera.

Vorremmo che le strutture ospedaliere si umanizzassero non solo attraverso l’offerta di suppellettili utili a questo scopo ma anche – fondamentale – attraverso l’analisi dello spazio e la continua manutenzione da parte degli operatori per una consapevolezza costante del luogo e degli effetti benefici che può offrire a tutti (ricoverati, loro familiari e operatori stessi). Le persone ricoverate in un ospedale sono sotto stress, provano dolore e paura, vivono l’esperienza di ore di solitudine che sembrano infinite mentre la struttura ospedaliera in genere è fredda, non curata, deprimente. Si tratta perciò di cambiare l’atmosfera!, alleviare lo stress e l’ansia del paziente e incoraggiare la guarigione attraverso l’armonizzazione dello spazio, proprio come ha fatto la maestra Angela nella sua aula della scuola di Genova.

Come dice il filosofo Silvano Petrosino ci piace pensare alla casa come «un luogo dove l’uomo possa vivere senza vergogna e senza censure, un luogo dove la sofferenza resta sofferenza, dove il difetto resta difetto, la paura resta paura, ma tutte queste cose sono ospitate, non sono più negate. Un luogo pacifico dove si è accolti»

http://www.smallfamilies.it/spazio-cura/

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Il viaggio è lungo, anzi lunghissimo. Dall’aereoporto caotico di Phuket il pulmino bianco ci accoglie con l’amichevole sorriso dell’autista e benefiche bottigliette di acqua fresca e ci porta, salendo verso est, sulla penisola collinare di Cape Yamu.

Arrivare sfiniti dal viaggio può rendere cupa ogni visione ma qui non si corre certo questo rischio: quando dalla scala si intravede quel tripudio di tavoli indonesiani ricolmi di fiori e di oggetti come fosse un altare, impossibile non sentirsi attraversati da un’energia rigenerante.

E allora lo sguardo continua un viaggio instancabile: nella lobby che accoglie gli ospiti con i bianchi divani pieni di cuscini, gli angoli con piccoli tavoli di legno e poltroncine, le panche scultoree che si stagliano sul mare, la parete “pixel” fatta da migliaia di legni, le candide lampade giganti merlettate, le grandi colonne rivestite “a picassiette” che delimitano il pergolato realizzato con tegole speciali impermeabili al clima caldo umido e alle stagionali piogge della zona. Si intuisce subito che il progetto ha colto lo spirito del luogo, scegliendo materiali e inserendoli con armonia nell’ambiente naturale. Tutto è pensato per quel posto preciso e realizzato da artigiani del territorio. Sarà che su quello splendido vassoio rosso di benvenuto offerto da una sorridente fanciulla vestita di bianco, la coccarda di tuberosa appena intrecciata ci inebria col suo profumo e quella tazza di the al ginger restituisce la forza: il desiderio è quello di continuare il viaggio in questo spazio speciale.

Como Hotels e Resorts di Singapore è il brand di Cristina Ong che ha chiesto a Paola Navone di progettare interamente l’interior design su una struttura architettonica preesistente abbastanza inquietante e rigida per quel luogo. E che lei, accettando con entusiasmo, ha realizzato in due anni con un lavoro appassionato di ricerca e progettazione di ogni dettaglio insieme al suo team. Da alcune finezze architettoniche ai cucchiai, dai tessuti a tutti gli arredi, dai piatti alle lampade, dal decoro grafico dei tetti che si vedono dalle finestre al rivestimento di bambù dipinto di bianco degli ascensori, in un mix con oggetti di produzione da lei disegnati e con altri di antiquariato e artigianato locale.

L’attenzione a ogni particolare che si percepisce vivendo a Point Yamu è qualcosa che si svela straordinario, qualcosa che si potrebbe definire “pedagogico”, da cui tutti possono imparare, come una sensibilità da acquisire nella vita di tutti i giorni: proprio a questo servono i bravi designer. Mai come in questo caso però è restrittivo definire designer Paola Navone. Lei in questo lavoro è, più che in ogni altro, una specie di sacerdotessa dell’abitare, colei che interagisce con successo con i bisogni di chi vive quegli spazi, cercando di rispondere ad ogni possibile richiesta, anche quelle che non si manifestano consapevolmente.

Percorrendo il corridoio di foglie di bambù intrecciate che creano un tunnel – luminoso e solare – in fondo al quale un punto o un cerchio rosso orienta il cammino, le 106 camere, distribuite sui 3 piani delle parti laterali dell’edificio, ognuna col suo numero in ceramica crackle, la lampada speciale a bulbo di Nacho Carbonell e l’immancabile ciotola in alluminio decorato in cui galleggiano i fiori, si affacciano come ospiti festosi che danno il loro benvenuto.

Le camere, suddivise in tre colori – turchese, lavanda e blu (solo la suite presidenziale è bianca) – che ricorrono nei tessuti, nelle piastrelle e negli accessori, sono grandi e luminose, con i pavimenti di cementine bianche e grigie tipiche del luogo. Tutte con un bagno da sogno dove la vasca rotonda naviga in un acquario rivestito con le ceramiche artigianali colorate nelle tre tonalità, un salottino con divano, un tavolino basso, una consolle e un mobile-credenza, un letto grande e comodissimo in legno e/o in tessuto, un armadio ultracomfort, e poi lampade, ceramiche. Mixati ogni volta in modo diverso così che ogni stanza sia sempre un po’ unica e speciale. E tutte si affacciano su un terrazzo privato dotato di almeno una coppia di dormeuse da esterno con un tavolino, alcune con piscina privata. Dal terrazzo, a 360 gradi, si ammirano le isole Andatane, una natura rigogliosa e un mare di un azzurro potente: una vista che lascia incantati.

Se poi si prosegue il viaggio verso le aree comuni: nella scintillante e immacolata Private Dining Room con la sua porta rosso lacca e l’antica mano gigante di una statua che funge da maniglia, nei ristoranti (quello turchese e grigio italiano “La Sirena” con la lunga parete con centinaia di piatti bianchi, e quello rosso e oro Thai “Nahmyaa” con i grandi pesci rossi realizzati con il mosaico), in altri corridoi dove la progettista ha giocato con materiali diversi che diventano muraglie che si intersecano e si fronteggiano (di ceramica smaltata, di scaglie di legno invecchiato, di sassi, di cementine), nell’Aqua Bar con la scultura aerea sul bancone, nella Tea Room della Lobby con il decoro a scritte thai sul soffitto, nei salottini (persino le aree tecniche antincendio sono decorate con tende di fiori o grafiche), nei pergolati, nei percorsi con l’acqua che riecheggiano lidi veneziani, nelle scale che ritmano e scaldano le alte mura grigio verdi, si arriva al “fuoco”, al centro del Resort ovvero la COMO Shambhala Retreat Spa e, sotto di essa, la piscina, lunga 100 metri, che sembra finire tra il cielo e il mare. Perfino gli ombrelloni che circondano la piscina sono stati punto di attenzione, portati come sono in spalla da meravigliosi allegri elefantini, e, con lo sguardo verso la piscina all’orizzonte, un cubo di sassi sembra emergere come l’isola che non c’è. Sembra che la visione sia calibrata su pieni e vuoti, su grigi e azzurri, su texture di materiali diversi, su piante verdi già cariche di fiori che cresceranno rigogliose e si arrampicheranno sulla lamiera a larghe maglie colorata in verde che riveste la struttura, raccordando così l’architettura all’ambiente.

Paola Navone ci comunica tutta la sua idea di bellezza: la semplicità prima di tutto, il piacere di vedere ed usare le cose che hanno attraversato secoli e continenti, il fascino intenso e commovente delle forme imperfette di quando gli oggetti sono fatti a mano.

Ogni spazio merita una descrizione per la ricchezza dei dettagli: tutto ha un senso, tutto ha una storia, tutto è curato, tutto ha un legame col territorio. Ecco, anche per questo senso di cura, di amore, di attenzione, la Spa Shambhala diventa il fulcro del progetto: entrarci, indossare la mise bianca che viene offerta, entrare con le ciabattine candide nelle stanze dedicate ai trattamenti o a piedi nudi nella grande stanza dei massaggi thai col pavimento in teak circondata e attraversata dai ricchi tendaggi di lino bianchissimo, osservare la luce filtrata dagli screen intrecciati delle grandi finestre, sedere sulle poltrone delle aree in ceramica turchese intenso, con un profumo che vorresti interiorizzare e portare sempre con te, ci fa sentire al centro della cura, al centro di un mondo da abitare, anche solo per pochi giorni.

Lilli Bacci

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foto di Enrico Conti, styling e location Lilli Bacci per le aziende IVV e I Patrizi

Auditorium

Abitare la Cura, Auditorium S.Apollonia, Firenze, 1 marzo 2013

Questa giornata deve il suo titolo –Abitare la cura– al libro curato dal prof. Sergio Marsicano che interverrà a fine mattinata. Ci è sembrato che potesse immediatamente spiegare il senso di questa riflessione comune.

Ci  piace infatti considerare qui l’abitare in sintonia con quanto espresso dal filosofo Martin Heidegger nella famosa conferenza del 1951 “Costruire, Abitare, Pensare” nell’ambito di un convegno di architettura a cui partecipò.

In estrema e banale sintesi (su questo poi mi taccio subito perché oggi interverranno studiosi con maggior titolo di me a trattare questi temi con competenza), giocando con il collegamento delle parole tedesche “casa” e “aver cura”, per Heidegger l’abitare può essere considerato una metafora dell’aver-cura. In più questo abitare lo si colloca oggi nelle istituzioni di cura sebbene il luogo abitato per eccellenza sia la casa.

«Molte istituzioni anche pubbliche si chiamano casa di cura, casa di riposo, casa di salute…» – qui cito le parole testuali di Ida Farè, che è stata docente di Architettura al Politecnico di Milano – «come se la parola originaria che esprime l’essenza dell’abitare potesse riscattare, almeno in parte, l’inevitabile limitazione del sé che comporta la vita in ospedale. Il nome casa che si sposta verso i luoghi della cura traduce un bisogno reale e nel verso contrario restituisce una illusione, un desiderata: sarai come a casa tua, questa è una specie di casa. (…) Si può dunque abitare una casa e si può anche abitare un ospedale, ma per quanto riguarda abitare l’ospedale si vive come in un altro mondo: camere asettiche, arredi gelidi e metallici, mobili immobili, finestre che non si aprono, bagni senza specchio, squallide stanze di attesa con quelle seggioline di plastica in fila lungo le pareti, dove ogni visitatore siede come messo al muro e dalle quali in cuor suo spera di allontanarsi al più presto. Insomma pare proprio che lo spazio sia la cenerentola dei luoghi di cura e che l’architettura sia una parente lontana e sconosciuta nei luoghi di malattia.»

E’ quello che fa dire a Margherita Hack che rifiuta il ricovero:

«Vivrò meno, ma più felice. Mi sono resa conto che mi sarebbero mancati la mia attività, mio marito, i miei animali e tutte quelle comodità, privacy compresa, che in ospedale non ci sono. Una vita a metà. Qui a casa, magari al rallentatore, faccio le cose normali.».

Eppure, se guardiamo, fin dal 1860 c’era una attenzione in questo senso: Florence Nightingale, fondatrice della moderna assistenza infermieristica nel suo “Note sulla Cura” dedica un intero capitolo al letto d’ospedale che deve essere basso, di ferro, scostato dal muro da entrambi i lati, e non lontano dalla finestra in modo che il malato possa vedere fuori.

Un altro capitolo parla della luce, di quale sia l’esposizione migliore, e che si lasci entrare il sole. Scrive: «Una leggera cortina bianca al capezzale e alla finestra una stuoia verde che si possa calare a volontà sono più che sufficienti perché dove è il sole là è il pensiero.» Interessante è anche che nei suoi consigli le infermiere sono responsabili non solo del malato ma della camera, essenziale al suo comfort. «Il convalescente passerà qualche ora in poltrona vicino al camino, non lontano dalla finestra. La vista dell’orizzonte, dei giardini e degli alberi rinfrancherà la sua mente e scaccerà le preoccupazioni che lo rattristano.»

Simone de Beauvoir nel suo libro Una morte dolcissima racconta l’esperienza del ricovero in ospedale della madre dapprima per una caduta poi per un tumore fino alla sua morte «In una fedele cronaca, clinica e psicologica insieme, -dice la storica Michelle Perrot nel libro “Storia delle Camere”- la scrittrice pur mai privilegiando la descrizione degli spazi ne segue attentamente la trasformazione: l’effetto è sconvolgente.» L’inizio è una clinica di cui vanta i pregi per la tranquillità, la finestra con vista sul giardino e le cure che la mettono di buonumore e la fanno sentire importante, dove riceve visite e regali, dove la camera è piena di fiori: ciclamini, azalee, rose, anemoni, dove il comodino è carico di scatole con gelatine di frutta, cioccolatini, caramelle, lei scopre il piacere di essere curata, servita, anche vezzeggiata tanto da non sopportare l’idea di dover tornare a casa. La situazione poi si evolve. Una serie di analisi rivela la presenza di un tumore. Il letto, che prima era vicino alla finestra, riprende la sua posizione normale al centro della stanza, con la testiera appoggiata al muro ed entrambi i lati liberi. Poi si decide di operare. Sulla porta della camera compare un cartello: ”non sono ammesse visite”. I dolciumi sono stati riposti nell’armadio insieme ai libri. Sul grande tavolo d’angolo niente più fiori ma bocce di vetro, flaconi, provette. Alla malata hanno tolto tutti gli indumenti. Il corpo viene denudato come la camera, della quale Simone fornisce una descrizione precisa, quasi volesse fissarne l’immagine nella memoria, queste sono le sue parole: “Dietro la porta c’è un tubo piuttosto corto; a sinistra la stanza da bagno con la padella, il ‘fagiolo’, del cotone idrofilo, dei recipienti; a destra un armadietto dove sono stati messi gli oggetti personali della mamma: da una stampella pende la sua vestaglia rossa, tutta impolverata.” E conclude: “prima attraversavo quei luoghi senza vederli. Adesso so che faranno parte della mia vita sempre”.»

Succede così. Anche per me è stato in questo modo. La mia esperienza vissuta come parente di un ammalato, insieme alla mia storia personale legata a quello che chiamo il sentimento dell’abitare mi hanno portato al progetto che ho intitolato BeHome (un modo diverso di dire “sentirsi a casa” che è stato l’argomento della mia tesi e che resta l’argomento della mia continua ricerca). Può sembrare un argomento non particolarmente originale o creativo, può sembrare la cosiddetta “scoperta dell’acqua calda”, ma metterlo nero su bianco con la volontà molto precisa di sperimentarlo e attuarlo mi ha portato ad essere qui ora.

Di questo ringrazio tantissimo la Regione Toscana col suo Presidente Enrico Rossi e la dottoressa Maria Teresa Mechi che mi hanno dato questa meravigliosa opportunità e ancor di più perché sono consapevole di essere una vera e propria outsider in questo contesto, cosa che rivendico come aspetto positivo: non sono un architetto progettista, non sono un medico, una psicoterapeuta o una figura sanitaria, non sono un politico. Sono una interior stylist, una “arredatrice” che un amico antropologo ha definito con mio grande godimento “stilista interiore”: mi interessa la casa, o meglio lo spazio vissuto della casa o di altri luoghi abitati che sempre ho osservato e osservo con attenta curiosità, rispetto e passione.

Sono profondamente attratta dal luogo abitato e dai suoi oggetti  e questa attrazione non ha niente a che vedere con l’aspetto estetico che pure potrebbe derivare dal mio lavoro. E’ la rivelazione di chi abita questo luogo  attraverso le cose che mi affascina e mi rapisce, essendo questa “rivelazione” psicologica, culturale, antropologica e sociale. Mi piace appunto parlare di  “sentimento dell’abitare” come ciò che ha sempre messo in movimento il mio lavoro con un percorso tra le tracce umane negli spazi abitati (Benjamin dice che “Abitare significa lasciar tracce”per me è una specie di mantra).

La mia ricerca in realtà non si conclude mai. Posso solo dire che il comune denominatore degli spazi osservati  sta nel mio vivere, quasi come una etnografa, un incontro empatico con gli spazi abitati da altri.

Attraverso la mia osservazione ho verificato come qualsiasi spazio venga “contaminato”, influenzato, “tracciato” da colui che lo vive anche solo per un tempo limitato, come un bisogno – che viene dal profondo – di segnare il proprio territorio,  sia esso il tavolo dell’ufficio o il letto dell’ospedale. Frequentando le strutture ospedaliere ho notato -come tutti- che (e cito nuovamente Ida Farè) «proprio quando il corpo è fragile e bisognoso, tutto ciò che fa sentire bene e a nostro agio dentro lo spazio della casa viene totalmente dimenticato e come la vita dei pazienti sia determinata esclusivamente dalle logiche dettate dalla terapia in spazi sgombri, freddi, a volte abbandonati e comunque organizzati soprattutto in funzione delle attività di lavoro del personale medico.»

Credo fermamente che poche esperienze di vita siano significative per l’esistenza quanto l’abitare, credo che Casa significhi tracce, cura, atto magico, spazio “desiderato”, una vera risorsa che permette di ancorarsi a situazioni piacevoli, ricordi ma anche nuovi stimoli e quindi nuove opportunità, credo che Casa  sia – in sostanza – il mantenimento della propria identità, che lo spazio vissuto non sia una scatola vuota e che abitare non significhi semplicemente “stare in un luogo”, ma anche costruire delle relazioni significative, dei rapporti con persone ed oggetti (in genere gli oggetti che l’abitazione contiene e custodisce sono le cose che si amano e che si sono scelte) che però, evidentemente, sembrano incompatibili con la coatta esperienza ospedaliera.

Un’altra definizione, che condivido profondamente, è quella di Umberto Galimberti nel suo Il corpo: «Abitare non è conoscere, è sentirsi a casa, ospitati da uno spazio che non ci ignora, tra le cose che dicono il nostro vissuto, tra volti che non c’e’ bisogno di riconoscere perche’ nel loro sguardo ci sono le tracce dell’ultimo congedo. Abitare è sapere dove deporre l’abito, dove sedere alla mensa, dove incontrare l’altro etc.(…)».

Per raccontarvi brevemente il progetto BeHome partirò dall’ovvia considerazione che molti ospedali non possono mantenere lo stato attuale di obsolescenza e neppure possono ignorare l’importanza di un ambiente idoneo di guarigione. La caratteristica principale del progetto sta proprio nella consapevolezza della cronica ma oggettiva mancanza di fondi e nella conoscenza di semplici accorgimenti e attenzioni per cui l’atmosfera può essere notevolmente migliorata: quello che viene proposto si può basare su donazioni da parte di aziende e sulla sensibilizzazione e preparazione del personale che opera all’interno della struttura.

Si tratta dunque di applicare alcune basilari conoscenze psicologiche, antropologiche, sociologiche, estetiche  nonchè semplici accorgimenti di arredamento, nelle istituzioni di cura dedicate al benessere di chi è costretto a soggiornarvi… non facendo progetti inapplicabili bensì semplicemente cominciando da piccole ma significative cose come prevedere una “nicchia” con dei propri oggetti, foto, tende, copriletti, libri, lampade soft, fiori; allestire lo spazio trasferendovi il calore delle emozioni; ritrovare angoli con qualcosa di significativo a livello personale; (come dice Elaine Poggi che sentiremo stasera sulla sua esperienza bellissima) “posare lo sguardo su un punto di bellezza nel vuoto angoscioso del luogo ospedaliero”.

Non propongo alcun progetto ex novo, alcuna costruzione ma propongo di intervenire proprio SUI LIMITI e CON I LIMITI : per dirla con Petrosino che parlerà dopo di me, non edificare ma abitare, non costruire ma custodire!

La volontà è quella di offrire una consulenza, creare un presidio  che analizzi la situazione e gli interventi minimi per trasformare lo spazio del dolore in spazio di possibile benessere emotivo (con l’aiuto di aziende del settore del mobile e dell’oggettistica&accessori). In sintesi, umanizzare le strutture ospedaliere non solo attraverso l’offerta di suppellettili utili a questo scopo ma anche – fondamentale – attraverso l’analisi dello spazio e la continua manutenzione da parte degli operatori per una consapevolezza costante del luogo e degli effetti benefici che può offrire a tutti (ricoverati, loro familiari e operatori stessi). Le persone ricoverate in un ospedale sono sotto stress, provano dolore e paura, vivono l’esperienza di ore di solitudine che sembrano infinite mentre la struttura ospedaliera in genere è fredda, non curata, deprimente. Si tratta perciò di cambiare l’atmosfera!, alleviare lo stress e l’ansia del paziente e incoraggiare la guarigione attraverso l’armonizzazione dello spazio.

Volendo, il progetto è pronto per essere attuato con una precisa strategia:

  • promuovendo una parte sperimentale;
  • intervenendo su una serie di strutture ospedaliere da individuare su base regionale ma  ampliabile su quella nazionale;
  • individuando imprese di arredamento, oggettistica, ecc. che siano disponibili ad offrire, adattare se necessario piccoli mobili, complementi, oggetti specifici per “arredare” l’habitat;
  • costituendo una catena di solidarietà che consenta interventi in strutture ospedaliere organizzando il supporto di uno staff multidisciplinare composto da medici, psicologi, psicoterapeuti, architetti, sociologi e antropologi per sviluppare le ricerche, le analisi, l’attuazione, la formazione degli operatori su questo tema insieme alla creazione di un network dove siano ampliate queste tematiche per lo scambio di esperienze e di opinioni, con iniziative editoriali, progetti formativi, incontri, per favorire il dialogo e la condivisione di conoscenze ed esperienze tra gli attori del settore (come oggi!);
  • promuovendo la formazione e sensibilizzazione del personale sanitario;
  • verificando il livello di gradimento dei degenti sugli interventi di armonizzazione dello spazio e il loro miglioramento nella cura;
  • valutando i costi per un risultato efficace;
  • anche costituendo, infine, se necessario, un’impresa che coordini e realizzi questi interventi;

Si tratta quindi di individuare le strutture dove proporre la sperimentazione e di contattare i responsabili sanitari del reparto per spiegar loro il progetto nei dettagli. Con la loro autorizzazione saranno immediatamente realizzate le interviste ai ricoverati del reparto che verranno analizzate dai tutors del progetto (ovvero il gruppo dei professionisti già precedentemente coinvolti nell’ambito della medicina, psichiatria, sociologia, antropologia, architettura e assistenza sanitaria).

In base alle risposte e alle ricerche già consultate si procederà acquistando o chiedendo in prestito o in offerta il materiale necessario all’allestimento sperimentale delle stanze, individuate come gli spazi della sperimentazione (sia per la disponibilità del ricoverato che per le caratteristiche della stanza).

Una volta allestiti questi spazi saranno fatti monitoraggi settimanali che riguarderanno sia i pazienti che il personale sanitario per verificare la manutenzione dello spazio. Dopo un periodo di tempo (stabilito dal gruppo dei tutors) saranno realizzate interviste di verifica dell’intervento.

Sono previsti  colloqui formativi  prima, durante e dopo l’intervento  con il personale sanitario del reparto che vertano sulla sensibilizzazione al concetto di casa, di abitare e di spazio umanizzato; sulla organizzazione degli spazi dove si realizzano le differenti cure quindi anche quello della stanza di ricovero; sull’attenzione agli aspetti medico-sociali, psicologici, giuridici, architettonici e mi piace dire anche poetici rispetto alla condizione di ricovero; su una riflessione sulla drammaticità esistenziale della malattia e la sua capacità di incidere negativamente anche sull’utilizzazione quotidiana dello spazio; sull’attenzione alla necessità di una manutenzione quotidiana dello spazio; infine sulla conoscenza delle diverse esperienze in materia sia nazionali che internazionali: saranno invitati ad esporre l’esperienza i diversi protagonisti.

Voglio ringraziare pubblicamente un persona a me molto cara, Giampaolo Pacini, grande consulente di strategia d’impresa e grande amico che mi ha aiutato fin da quando il progetto era in embrione a redigerlo con metodo.

Oggi è solo l’inizio, con oggi cominciamo. Sicuramente oggi mancheranno realtà importantissime e significative e me ne scuso fin da ora pregandovi anzi di segnalarcele. Volutamente però in questa fase non è stato invitato ad esporre la propria esperienza nessuno della psichiatria e della pediatria: settori assolutamente fondamentali – intendiamoci – dai quali si può dire che l’umanizzazione sia partita.

Il desiderio era però quello di dare la parola agli ospedali in cui queste esperienze sono considerate meno importanti perché è la terapia che deve prevalere.

Consentitemi di dedicare tutto questo lavoro, questa giornata e spero quello che ne seguirà, alla mia adorata amatissima amica Sabrina Grifeo che ho perduto nel dicembre scorso dopo tre mesi di una malattia devastante. Uno degli ultimi messaggi che mi ha scritto da una clinica di queste  alternative in Germania dove era andata per tentare di rigenerarsi in vista della chemioterapia che doveva affrontare, mi diceva: “ti manderò qualche foto di ambienti medici alternativi per la tua ricerca” … e ho il ricordo bellissimo di quando, riflettendo insieme a lei sul senso di Casa, ho posto sul cuore le parole di Silvano Petrosino: « Se esiste una casa, è il luogo dove l’uomo possa vivere senza vergogna e senza censure, un luogo dove la sofferenza resta sofferenza, dove il difetto resta difetto, la paura resta paura, ma tutte queste cose sono ospitate, non sono più negate. Un luogo pacifico dove si è accolti.» Con l’augurio che il luogo della Cura diventi Casa che accoglie, passo la parola a lui, professore di Filosofia morale e di Filosofia della comunicazione alla Cattolica di Milano che con le sue riflessioni filosofiche e col suo meraviglioso modo ci condurrà nell’essenza dell’abitare.

Grazie

Lilli Bacci

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La cura come gesto, azione, attenzione.
La cura che passa anche dagli ambienti.

Come trasformare lo spazio del dolore, quello delle strutture ospedaliere, in spazio di possibile benessere emotivo?

Il primo marzo, a Firenze, il convegno a cura di Lilli Bacci, “Abitare la cura”.

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intervento al convegno di Fiesole Futura: Officina del Racconto

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