Archivio degli articoli con tag: abitare

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#iorestoacasa ci viene ripetuto, consigliato, ora imposto anche da un decreto legge e siamo, chi ha la fortuna di averle, tra le nostre quattro mura a cercare di impiegare il nostro tempo riscoprendo affetti, valori e atti domestici. Improvvisamente, io che ho “vissuto” di questo tema della casa, mi ci sono riempita occhi di immagini, bocca di parole, cuore di sentimenti e testa di bei concetti, mi trovo svuotata e intravedo una retorica che mi tiene a distanza. Eppure potrei affondare qui tutto il mio “sapere” oppure tutto il mio desiderio di  impastare di emozioni questo argomento dell’ abitare sul quale lavoro, elaboro e rifletto da sempre.

#iorestoacasa: c’è chi studia, chi tele-lavora, chi mette in ordine dove non lo faceva mai, chi pulisce la casa come non aveva mai fatto, chi impara a cucinare, a fare torte, chi gioca, chi scrive, chi disegna, chi legge, chi guarda film, chi fa yoga, chi medita, chi salta la corda, chi guarda foto, chi suona, chi sta sempre connesso, chi non si connette più, chi non fa che dormire, chi forse non sopporta già più nessuno…

La casa cosa è e cosa diventa? Un contenitore imposto col quale trovare dei compromessi per non angosciarsi, per stare meglio dentro di noi? Un luogo dove si cerca conforto dalla disperazione dell’impotenza che genera questo momento pazzesco o dove ci sentiamo solo imprigionati? Sicuramente uno spazio in cui adattarsi e trovare buone pratiche interne che ci servono, ma comunque qualcosa che allontana la mia visione della casa come spazio vitale in cui la persona trova identità, “esiste abitando”, si “rannicchia per vivere poeticamente nel mondo” per dirla con due dei grandi che hanno teorizzato su di essa  (Heidegger, Bachelard)…

In questo tempo mi sento più attratta dalle iniziative bellissime che si mettono a disposizione della comunità: quella che si dice “solidarietà digitale” da una parte per chi ha la possibilità di connettersi, o le reti dei quartieri e dei comuni per le persone fragili e anziane (vedi il Comune di Milano, spero tanto che questo avvenga anche in molte altre città). In queste ore brutte guardo con più speranza alla comunità piuttosto che alla casa – lo devo dire – io che ho sempre visto la casa come la grande terapia.

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Cosa sono i libri affettivi delle case?

Sono libri fotografici che produciamo su vostra richiesta sulla vostra casa o su una casa che amate.

Dovete lasciare o semplicemente trasformare la casa dove avete vissuto? La casa della vostra infanzia viene venduta o affittata ad altri e la dovete svuotare delle vostre cose?

E’ mancata una persona cara della vostra famiglia e dovete chiudere e svuotare la sua casa?

Prima che questo avvenga, se volete mantenerne il ricordo di ogni suo angolo noi possiamo entrare con voi e fotografarla, molto semplicemente e molto liberamente, così com’è, senza “aggiustamenti”, solo con il cuore e seguendo le vostre emozioni.

Vi consegneremo il prodotto finito, confezionato in un vero e proprio libro stampato, con copertina e, se volete, con qualche scritto e magari la vostra storia.

 

Perchè questo noi siamo: la nostra scrittura e le nostre cose: questo il nostro lascito e, ben più esattamente che in una nota biografica, il nostro curriculum.

 

Michele Mari “Asterusher, autobiografia per feticci” Corraini Edizioni

 

per i costi per il libro che proponiamo nel formato quadrato 20×20 o 30×30 e che comprendono il servizio fotografico realizzato con smartphone di alta qualità, l’impaginazione grafica e la stampa di una copia scrivete a:

lillibacci@gmail.com

Non si richiedono altre spese se il servizio fotografico si svolge a Firenze o a Milano o nelle vicinanze delle due città. Per altre località, si richiederà un rimborso spese per il viaggio e l’eventuale vitto e pernottamento.

 

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LABORATORIO DI IDEE

di Lilli Bacci / fotografie di Enrico Conti

La casa di Paola Navone nasce durante i mille lavori percorsi su tutti i fronti -hotel, case, allestimenti, eventi, negozi, design, decori…- e in qualche modo raccoglie in una sintesi tutte le sue performance e il suo senso del vivere i luoghi. È come se il suo spazio fosse il laboratorio in cui nascono le idee. Non a caso -tra l’altro- la casa è al piano superiore dell’area post industriale che accoglie il suo studio -lo studio OTTO- dove lavora con il suo fantastico team. Lì si produce ciò che sboccia dalla fervida mente di Paola e dal suo modo di abitare, si cerca di dare forma ai suoi appunti su sensazioni, colori, forme, superfici, impressioni raccolte dal suo continuo viaggiare, dal suo essere sempre in transito: « Il viaggio è diventato il mio modo di respirare, non importa quanto lontano. Viaggio inteso come forma di pensiero. Come modo di essere. Come occhio nomade che non smette mai di guardare, di stupirsi e di creare connessioni tra le cose più diverse. » -dice come suo mantra Paola- «un’esperienza totale, dove accumulo immagini che finiscono nel bidone della mia testa. E da lì, all’improvviso, tiro fuori qualcosa. Sono una nomade che ama mettere radici in tanti luoghi» dice di sé. E i luoghi dove le sue radici hanno attecchito un po’ più in profondità sono Parigi e Milano. Da pochi mesi hanno attecchito in un grande cortile della Milano industriale condiviso con officine e laboratori dove è nata la sua nuova casa studio. Per raggiungere l’ingresso si cammina attraverso un rigoglioso “bidongarden”. Un giardino anarchico e post industriale di erbe, rampicanti e arbusti cresciuto in bidoni di colore blu indaco che da solo sboccia, appassisce, rinasce e a volte si autosemina.

Sotto c’è lo studio che non ha perso la sua bellissima aria di opificio.

Sopra la casa. Tetto in lamiera ondulata. Muri grezzi. Pavimenti fatti di sassi. Grandi vetrate. Un soppalco affacciato su terrazzi-orti dove Paola “colleziona” piante aromatiche e fiori colorati “purché si mangino”.

Una casa che è uno spazio aperto in cui aria e luce circolano liberamente e il rumore della città non entra. “Se questo luogo oggi è la mia casa è colpa della luce – racconta – una luce intensa e diretta come quella di Parigi”

Questa casa dall’aria incompiuta e imperfetta racconta molto della curiosa padrona di casa che ammette con semplicità “La mia casa è dove sono io”.

Paola Navone ha fatto della contaminazione e della stratificazione la cifra del suo lavoro e la sua casa è proprio così. Libera. Bulimica. Costituita per accumulo fantasioso di cose, ciascuna con la sua piccola storia di mondo da raccontare.

Questa è Paola: l’alternanza di pieno e vuoto, la luce che gira in libertà senza ostacoli, gli oggetti che ha recuperato e che vivono la loro seconda vita, le creazioni di alcuni designer storici oppure emergenti, i suoi progetti in continuo divenire. Rigorosa nell’imperfezione, viene da dire di lei che l’imperfezione ama, nel senso di far incontrare tante cose in una estetica originale e piena di energia.

Ci sono gli oggetti di Paola Navone designer. Il grandissimo divano Gervasoni rivestito con tessuti Rubelli. Le sedie disegnate per Crate and Barrel e i tavolini Poliform e Baxter.

Il letto della collezione Letti&Co. Ciascuno di questi oggetti rappresenta per lei un’avventura nata dal bellissimo incontro con una persona o con un maestria artigiana.

Ci sono cose arrivate in valigia da qualche meraviglioso viaggio. Splendidi esempi di no-name design che svelano la passione di Paola Navone per l’Oriente e il Sud del mondo, dove qua e là ha affondato alcune delle sue radici. Come le lampade rosse scovate in un mercato cinese e ora sospese a schiera in cucina. E la bizzarra famiglia di sedie e sgabelli arrivati in questa casa da ogni altrove.

Ci sono pezzi unici mescolati ad allegre e strabilianti collezioni di oggetti accumulate per una prassi che Paola Navone chiama “antropologia delle cose” come se fosse la sua professione. Una collezione di bellissime e panciute ceramiche del Sud della Francia. Una raccolta di utensili, allumini e oggetti per la tavola. Una collezione di ceramiche turchesi provenienti dalle fabbriche di ceramica Thailandesi raccolte da Paola per più di due anni durante i viaggi di lavoro, incastonati nel muro come un mosaico tridimensionale.

Ci sono oggetti di recupero che vivono in questa casa la loro seconda vita. Poi cose della vita di tutti i giorni camuffate dalla visionaria creatività della padrona di casa e dalla sua attitudine a trasformare tutto in qualcosa d’altro. Allora non è strano che sui tavolini Poliform siano comparsi due grandi occhi, la scala in lamiera sia dipinta a pois bianchi come una scultura africana e il prezioso lampadario blu cobalto di Barovier&Toso penda con il suo cavo rosso da un tronco sospeso.

Questa casa trasmette un’altra cosa che appartiene a Paola Navone: una speciale, verace e intima mediterraneità. Si respira perdendosi nei colori che tingono le cose. Sono i colori dell’acqua. Blu in tutte le sue sfumature. Indaco. Turchese. Verde acquamarina. Ottanio.

Si respira toccando i materiali. I sassi e le piastrelle in cemento fatti per camminarci a piedi nudi. E guardando gli oggetti ispirati al mare, primo fra tutti l’enorme pesce rosso realizzato dai ceramisti da Albissola che domina dal soppalco.

Poi c’è la cucina. Grande. Professionale. Serena. Stracolma di pentole, ciotole, contenitori attrezzi e oggetti domestici di ogni tipo e di ogni luogo. È la cucina di una padrona di casa che quando cucina, cucina davvero. Una grande libreria raccoglie di libri di cucina di ogni paese. Si sta cosi bene che viene voglia di sostare un po’.

Bisogna lavare lavare lavare lavare, non pensare a nient’altro, pulire, non lasciare neanche una briciola, eliminare tutto, ogni traccia é una desolazione, la prova che qualcosa é stato sporcato, lo so bene che é impossibile far fronte a tutto questo sudiciume, ma bisogna provarci (…). Vede, gli angoli sono importanti, é lí che va a cacciarsi tutto quel che può sfuggire all’attenzione, pensiamo di aver finito e invece no, non é così, gli angoli sono pieni di residui, e se non li sgomberi subito si accumulano, aumentano, si radicano, fanno massa, saltano agli occhi, capisce, Marta ? negli angoli sta l’essenziale.
Nathalie Kuperman, La domestica, Codice Edizioni

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Foto Irving Penn

Sul sito Small Families

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Lo spazio e la cura

La maestra Angela che abita la sua aula come fosse una casa è un esempio recente e lampante di quello che può significare vivere in uno spazio che “ha cura”: un luogo che ci affranca, che ci dà pace e sicurezza, ci fa ritrovare in noi e che ci dispone alla relazione. Si tratta di un’aula senza cattedra dove la maestra siede in mezzo ai bambini e che è arredata come se fosse una casa.

Ci sono tende, cuscini, tazze, piante, cesti porta giochi. C’è anche un angolo morbido, dove le storie si raccontano seduti per bene, comodi, per far sì che i pensieri entrino meglio. Siamo a Genova, dove Angela Maltoni, maestra all’Istituto Comprensivo Cornigliano, ha costruito il suo speciale angolo didattico.
«Ho sempre avuto aule variopinte e ricche di materiali – spiega – ma dall’anno scolastico 2008/2009, quando ho dato vita al progetto di sperimentazione didattica “Insieme per un futuro più equo”, ho allestito l’aula seguendo, in parte, le teorie di Celestin Freinet che coinvolgono attivamente i bambini nelle azioni didattiche. Il mio progetto prevede attività di bilinguismo, plurilinguismo e l’insegnamento secondo un curricolo interculturale in cui le differenze diventano risorsa di arricchimento reciproco. Questo ha reso necessario sfruttare anche le pareti, decorate con grandi cartelloni di alfabeti in varie lingue. Aver abbracciato scelte pedagogiche e didattiche diverse è stato il motore di tante piccole ‘rivoluzioni’ nel modo di insegnare. La scelta del metodo naturale per l’acquisizione della lettura e della scrittura e l’adozione alternativa al libro di testo hanno reso necessaria la creazione di uno spazio-biblioteca multiculturale all’interno dell’aula, con testi in tante lingue e la predisposizione di scaffali dedicati a custodire oggetti stimolanti per la scoperta della scrittura. La scelta inoltre del metodo narrativo e la proposta, ogni giorno, della lettura di un libro come avvio alle attività, ha portato alla creazione di un angolo morbido, con tanti cuscini colorati dove i bambini si siedono in cerchio, ascoltano il racconto ad alta voce e affrontano momenti di conversazione e discussione.

10689692_300731516782551_5653987404764188117_nUn ampio spazio raccoglie i pupazzi e le marionette che vengono utilizzati non solo per il gioco libero ma anche per le drammatizzazioni, utili a far venire fuori i vissuti personali. La scelta di lavorare in gruppo e in modo cooperativo determina la disposizione dei banchi a isole e l’assenza della cattedra. Il materiale didattico come penne, matite, colori, gomme, è in comune, e viene disposto sulle isole in contenitori e usato liberamente da tutti. I bambini della mia classe sperimentale provengono da tante parti del mondo e si portano dietro la ricchezza di lingue e culture diverse. Questa modalità di lavorare in gruppo e di avere spazi liberi e coinvolgenti a disposizione li aiuta a socializzare più in fretta e a imparare ad apprezzare le diversità. La condivisione del materiale scolastico li abitua a una convivenza partecipata e accettata in cui tutti si sentono uguali».

Le “tante, piccoli rivoluzioni” della didattica hanno così inciso e condizionato lo spazio, che è diventato “casa”, una casa dove gli alunni di Angela imparano meglio, socializzano meglio, escono dalle lezioni senza traumi e nervosismi. Certamente il loro apprendimento risulterà migliore, e alla fine tutta scuola risulterà migliore.

Un cura dello spazio che ci piacerebbe pensare in ogni circostanza pubblica: gli uffici, le banche, gli ospedali!

Già, proprio e s10521756_300731550115881_1780054947750474467_noprattutto gli ospedali, dove, come scrive Ida Farè -che è stata docente di Architettura al Politecnico di Milano- nel libro “Abitare la cura: riflessioni sull’architettura istituzionale” a cura di Sergio Marsicano, «si vive come in un altro mondo: camere asettiche, arredi gelidi e metallici, mobili immobili, finestre che non si aprono, bagni senza specchio, squallide stanze di attesa con quelle seggioline di plastica in fila lungo le pareti, dove ogni visitatore siede come messo al muro e dalle quali in cuor suo spera di allontanarsi al più presto. Insomma pare proprio che lo spazio sia la cenerentola dei luoghi di cura e che l’architettura sia una parente lontana e sconosciuta nei luoghi di malattia.»

Eppure, se guardiamo, fin dal 1860 c’era una attenzione in questo senso: Florence Nightingale, fondatrice della moderna assistenza infermieristica nel suo “Note sulla Cura” dedica un intero capitolo al letto d’ospedale che deve essere basso, di ferro, scostato dal muro da entrambi i lati, e non lontano dalla finestra in modo che il malato possa vedere fuori. Un altro capitolo parla della luce, di quale sia l’esposizione migliore, e che si lasci entrare il sole. Scrive: «Una leggera cortina bianca al capezzale e alla finestra una stuoia verde che si possa calare a volontà sono più che sufficienti perché dove è il sole là è il pensiero

Frequentando le strutture ospedaliere possiamo invece ben notare che «proprio quando il corpo è fragile e bisognoso, tutto ciò che fa sentire bene e a nostro agio dentro lo spazio della casa viene totalmente dimenticato e come la vita dei pazienti sia determinata esclusivamente dalle logiche dettate dalla terapia in spazi sgombri, freddi, a volte abbandonati e comunque organizzati soprattutto in funzione delle attività di lavoro del personale medico.» (cit. Ida Farè)

Noi crediamo fermamente che poche esperienze di vita siano significative per l’esistenza, quanto l’abitare, crediamo che Casa significhi tracce, cura, atto magico, spazio “desiderato”, una vera risorsa che permette di ancorarsi a situazioni piacevoli, ricordi ma anche nuovi stimoli e quindi nuove opportunità, crediamo che Casa sia – in sostanza – il mantenimento della propria identità, che lo spazio vissuto non sia una scatola vuota e che abitare non significhi semplicemente “stare in un luogo”, ma anche costruire delle relazioni significative, dei rapporti con persone ed oggetti (in genere gli oggetti che l’abitazione contiene e custodisce sono le cose che si amano e che si sono scelte) che però, evidentemente, 1398901_193219354200435_642436949_osembrano incompatibili proprio con la coatta esperienza ospedaliera.

Vorremmo che le strutture ospedaliere si umanizzassero non solo attraverso l’offerta di suppellettili utili a questo scopo ma anche – fondamentale – attraverso l’analisi dello spazio e la continua manutenzione da parte degli operatori per una consapevolezza costante del luogo e degli effetti benefici che può offrire a tutti (ricoverati, loro familiari e operatori stessi). Le persone ricoverate in un ospedale sono sotto stress, provano dolore e paura, vivono l’esperienza di ore di solitudine che sembrano infinite mentre la struttura ospedaliera in genere è fredda, non curata, deprimente. Si tratta perciò di cambiare l’atmosfera!, alleviare lo stress e l’ansia del paziente e incoraggiare la guarigione attraverso l’armonizzazione dello spazio, proprio come ha fatto la maestra Angela nella sua aula della scuola di Genova.

Come dice il filosofo Silvano Petrosino ci piace pensare alla casa come «un luogo dove l’uomo possa vivere senza vergogna e senza censure, un luogo dove la sofferenza resta sofferenza, dove il difetto resta difetto, la paura resta paura, ma tutte queste cose sono ospitate, non sono più negate. Un luogo pacifico dove si è accolti»

http://www.smallfamilies.it/spazio-cura/

Le proprie cose spostate in una casa diversa
Il piacere del nuovo ma anche di ritrovarle
e scoprire che forse dovevano proprio arrivare li dove adesso sono

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Il viaggio è lungo, anzi lunghissimo. Dall’aereoporto caotico di Phuket il pulmino bianco ci accoglie con l’amichevole sorriso dell’autista e benefiche bottigliette di acqua fresca e ci porta, salendo verso est, sulla penisola collinare di Cape Yamu.

Arrivare sfiniti dal viaggio può rendere cupa ogni visione ma qui non si corre certo questo rischio: quando dalla scala si intravede quel tripudio di tavoli indonesiani ricolmi di fiori e di oggetti come fosse un altare, impossibile non sentirsi attraversati da un’energia rigenerante.

E allora lo sguardo continua un viaggio instancabile: nella lobby che accoglie gli ospiti con i bianchi divani pieni di cuscini, gli angoli con piccoli tavoli di legno e poltroncine, le panche scultoree che si stagliano sul mare, la parete “pixel” fatta da migliaia di legni, le candide lampade giganti merlettate, le grandi colonne rivestite “a picassiette” che delimitano il pergolato realizzato con tegole speciali impermeabili al clima caldo umido e alle stagionali piogge della zona. Si intuisce subito che il progetto ha colto lo spirito del luogo, scegliendo materiali e inserendoli con armonia nell’ambiente naturale. Tutto è pensato per quel posto preciso e realizzato da artigiani del territorio. Sarà che su quello splendido vassoio rosso di benvenuto offerto da una sorridente fanciulla vestita di bianco, la coccarda di tuberosa appena intrecciata ci inebria col suo profumo e quella tazza di the al ginger restituisce la forza: il desiderio è quello di continuare il viaggio in questo spazio speciale.

Como Hotels e Resorts di Singapore è il brand di Cristina Ong che ha chiesto a Paola Navone di progettare interamente l’interior design su una struttura architettonica preesistente abbastanza inquietante e rigida per quel luogo. E che lei, accettando con entusiasmo, ha realizzato in due anni con un lavoro appassionato di ricerca e progettazione di ogni dettaglio insieme al suo team. Da alcune finezze architettoniche ai cucchiai, dai tessuti a tutti gli arredi, dai piatti alle lampade, dal decoro grafico dei tetti che si vedono dalle finestre al rivestimento di bambù dipinto di bianco degli ascensori, in un mix con oggetti di produzione da lei disegnati e con altri di antiquariato e artigianato locale.

L’attenzione a ogni particolare che si percepisce vivendo a Point Yamu è qualcosa che si svela straordinario, qualcosa che si potrebbe definire “pedagogico”, da cui tutti possono imparare, come una sensibilità da acquisire nella vita di tutti i giorni: proprio a questo servono i bravi designer. Mai come in questo caso però è restrittivo definire designer Paola Navone. Lei in questo lavoro è, più che in ogni altro, una specie di sacerdotessa dell’abitare, colei che interagisce con successo con i bisogni di chi vive quegli spazi, cercando di rispondere ad ogni possibile richiesta, anche quelle che non si manifestano consapevolmente.

Percorrendo il corridoio di foglie di bambù intrecciate che creano un tunnel – luminoso e solare – in fondo al quale un punto o un cerchio rosso orienta il cammino, le 106 camere, distribuite sui 3 piani delle parti laterali dell’edificio, ognuna col suo numero in ceramica crackle, la lampada speciale a bulbo di Nacho Carbonell e l’immancabile ciotola in alluminio decorato in cui galleggiano i fiori, si affacciano come ospiti festosi che danno il loro benvenuto.

Le camere, suddivise in tre colori – turchese, lavanda e blu (solo la suite presidenziale è bianca) – che ricorrono nei tessuti, nelle piastrelle e negli accessori, sono grandi e luminose, con i pavimenti di cementine bianche e grigie tipiche del luogo. Tutte con un bagno da sogno dove la vasca rotonda naviga in un acquario rivestito con le ceramiche artigianali colorate nelle tre tonalità, un salottino con divano, un tavolino basso, una consolle e un mobile-credenza, un letto grande e comodissimo in legno e/o in tessuto, un armadio ultracomfort, e poi lampade, ceramiche. Mixati ogni volta in modo diverso così che ogni stanza sia sempre un po’ unica e speciale. E tutte si affacciano su un terrazzo privato dotato di almeno una coppia di dormeuse da esterno con un tavolino, alcune con piscina privata. Dal terrazzo, a 360 gradi, si ammirano le isole Andatane, una natura rigogliosa e un mare di un azzurro potente: una vista che lascia incantati.

Se poi si prosegue il viaggio verso le aree comuni: nella scintillante e immacolata Private Dining Room con la sua porta rosso lacca e l’antica mano gigante di una statua che funge da maniglia, nei ristoranti (quello turchese e grigio italiano “La Sirena” con la lunga parete con centinaia di piatti bianchi, e quello rosso e oro Thai “Nahmyaa” con i grandi pesci rossi realizzati con il mosaico), in altri corridoi dove la progettista ha giocato con materiali diversi che diventano muraglie che si intersecano e si fronteggiano (di ceramica smaltata, di scaglie di legno invecchiato, di sassi, di cementine), nell’Aqua Bar con la scultura aerea sul bancone, nella Tea Room della Lobby con il decoro a scritte thai sul soffitto, nei salottini (persino le aree tecniche antincendio sono decorate con tende di fiori o grafiche), nei pergolati, nei percorsi con l’acqua che riecheggiano lidi veneziani, nelle scale che ritmano e scaldano le alte mura grigio verdi, si arriva al “fuoco”, al centro del Resort ovvero la COMO Shambhala Retreat Spa e, sotto di essa, la piscina, lunga 100 metri, che sembra finire tra il cielo e il mare. Perfino gli ombrelloni che circondano la piscina sono stati punto di attenzione, portati come sono in spalla da meravigliosi allegri elefantini, e, con lo sguardo verso la piscina all’orizzonte, un cubo di sassi sembra emergere come l’isola che non c’è. Sembra che la visione sia calibrata su pieni e vuoti, su grigi e azzurri, su texture di materiali diversi, su piante verdi già cariche di fiori che cresceranno rigogliose e si arrampicheranno sulla lamiera a larghe maglie colorata in verde che riveste la struttura, raccordando così l’architettura all’ambiente.

Paola Navone ci comunica tutta la sua idea di bellezza: la semplicità prima di tutto, il piacere di vedere ed usare le cose che hanno attraversato secoli e continenti, il fascino intenso e commovente delle forme imperfette di quando gli oggetti sono fatti a mano.

Ogni spazio merita una descrizione per la ricchezza dei dettagli: tutto ha un senso, tutto ha una storia, tutto è curato, tutto ha un legame col territorio. Ecco, anche per questo senso di cura, di amore, di attenzione, la Spa Shambhala diventa il fulcro del progetto: entrarci, indossare la mise bianca che viene offerta, entrare con le ciabattine candide nelle stanze dedicate ai trattamenti o a piedi nudi nella grande stanza dei massaggi thai col pavimento in teak circondata e attraversata dai ricchi tendaggi di lino bianchissimo, osservare la luce filtrata dagli screen intrecciati delle grandi finestre, sedere sulle poltrone delle aree in ceramica turchese intenso, con un profumo che vorresti interiorizzare e portare sempre con te, ci fa sentire al centro della cura, al centro di un mondo da abitare, anche solo per pochi giorni.

Lilli Bacci

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progetto e foto di James Mollison

Dove i bambini dormono

Dove i bambini dormono – storie di diversi bambini in tutto il mondo  raccontata attraverso i ritratti e le immagini delle loro camere da letto.

“Quando Fabrica mi ha chiesto di venire con un’idea per impegnarsi con i diritti dei bambini , mi sono trovato a pensare alla mia camera da letto : come è stata significativa  durante la mia infanzia , e come si riflette ciò che ho avuto e chi ero . Mi venne in mente che un modo per affrontare alcune delle situazioni complesse e le problematiche sociali che colpiscono i bambini poteva essere quella di guardare le camere da letto dei bambini in tutti i tipi di circostanze diverse . Fin dall’inizio , non volevo che soloche fosse di ‘ bambini bisognosi ‘ nel mondo in via di sviluppo , ma piuttosto qualcosa di più inclusivo , sui bambini da tutti i tipi di situazioni.Il mio pensiero era che le immagini delle camere da letto sarebbero state con il materiale dei bambini e circostanze culturali ‘ i ​​dettagli che segnano inevitabilmente le persone le une dalle altre ‘ , mentre i bambini stessi sarebbero apparsi nella serie di ritratti come individui , da pari a pari ‘ proprio come i bambini. Questa è una selezione dei dittici del libro ( Chris Boot novembre 2010) . Il libro è scritto e presentato ad un pubblico di 9-13 anni di eta ‘ destinato a interessare e coinvolgere i bambini nei dettagli della vita di altri bambini in tutto il mondo , e le questioni sociali che li riguardano , mentre anche essere un serio saggio fotografico per un pubblico adulto .”

 

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una immagine surreale del tribunale di Firenze

L’odio eterno per quello del terzo piano

di Simone Lenzi

Se non sono mai riuscito a credere fino in fondo a nessuna utopia sociale, è perché mi è capitato di prendere parte alle riunioni di condominio.
Come fai a credere nel sole dell’avvenire quando sai che c’è chi ti salta alla gola per una lampadina bruciata? E alla pace nel mondo, quando c’è chi guerreggia per una servitù di passaggio? Ora, la mia impressione è che il tasso di astiosità delle riunioni di condominio sia sensibilmente aumentato negli ultimi anni. Non c’è bisogno di scomodare un sociologo per capirne il motivo: la gente sta male, e si vede. Non è solo la crisi, l’incertezza del futuro, la mancanza di progetti sensati. È un farsi piccini piccini, autoreferenziali, centrati sempre e soltanto su se stessi. È la paura di tutto, la paura degli altri. L’idea che esista un orticello da presidiare con il filo spinato. Chi mi conosce sa che litigare con me è una cosa abbastanza difficile. Bisogna metterci impegno. Eppure, proprio io, per una lite condominiale ho dovuto cambiare casa. Perché in ogni condominio c’è sempre qualcuno che, per sopportare l’enorme voragine di senso sull’orlo della quale siamo tutti sospesi, vive il pianerottolo come un’estensione vitale del proprio essere. Ci sono donne per cui l’androne del palazzo assume una valenza uterina, uomini per cui la parabola di Sky è un’estensione del pene. Vecchi che hanno un bisogno di silenzio che neanche un monaco benedettino, e che per questo si lamentano se solo osi camminare in casa tua. So bene che dirlo non serve. Che non basta un articolo, che tutto resterà come prima. Ma voglio fare un appello accorato a tutti coloro che in questo momento si sentono vittime di un sopruso condominiale e giurano odio eterno a quello del terzo piano. A tutti quelli che in questo momento stanno per ingolfare la già disastrosa macchina della giustizia con l’ennesima causa per una scemenza qualunque. Agli avvocati disperati che, pur di guadagnare due spiccioli e non girarsi i pollici guardando il soffitto, istigano il condomino di turno ad adire alle vie legali. Vi dico: lasciate perdere. Fregatevene. Provate a misurare il vostro problema di millesimi sulle quote dell’illuminazione delle scale con un qualunque pensiero cosmologico. Pensate ad esempio che la Via Lattea ha un diametro di circa 100.000 anni luce ed è solo una delle circa 100 miliardi di galassie dell’universo osservabile. E alla luce infinita di questo, rasserenatevi. Fatevi una vita. Che tanto tutto è vanità, e, di tutto, niente è più vano del vano scale.

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… e questi sono due vicini molto lontani, quartiere Isola, Milano

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La amavo con abbandono assoluto. (…) Tutte le altre case (poche del resto, a parte gli alberghi) sono state dei tetti  che hanno servito per ripararmi dalla pioggia e dal sole, ma non delle CASE nel senso arcaico e venerabile della parola. (…) Tutto mi piace in essa: l’asimmetria dei suoi muri, la quantità dei suoi saloni, gli stucchi dei suoi soffitti, il cattivo odore della cucina dei miei nonni, il profumo di violetta nella stanza di toletta di mia Madre, l’afa delle sue scuderie, la buona sensazione di cuoi puliti della selleria, il mistero di certi appartamenti non finiti al secondo piano, l’immenso locale della rimessa nella quale si conservavano le carrozze; tutto un mondo pieno di gentili misteri, di sorprese sempre rinnovate e sempre tenere. Ne ero il padrone assoluto e di corsa ne percorrevo continuamente i vasti spazi

G. Tomasi di Lampedusa “I Racconti” Feltrinelli

C’è quasi sempre un briciolo di nostalgia quando pensiamo alla casa che abitavamo da piccoli. Non importa che fosse al quarto piano senza ascensore, che non avesse il riscaldamento, che fosse la casa dove mai abbiamo avuto una stanza “nostra”, dove forse anche ha abitato la povertà o il disagio. Perché che la nostra dimora fosse fastosa oppure un semplice appartamento di una periferia, essa ci rimanda comunque alla protezione vissuta in quel luogo preciso, all’immagine di una unione, di un grembo.

Probabilmente, a parte il senso di protezione della casa natale, le si attribuiscono valori di sogno, gli ultimi valori che rimangono quando la casa non c’è più.

Si ricorda l’angolo dove ci mettevamo a giocare o a leggere o a nasconderci o ad annoiarci a morte.  E’ la casa della memoria, è la casa dell’infanzia, è la prima casa, la casa “unica” per noi. Il filosofo Gaston Bachelard dice: “La casa natale è qualcosa di più di un insieme di alloggi, è un corpus di sogni.” E continua: “La casa natale ha inciso in noi la gerarchia delle diverse funzioni di abitare. Noi siamo il diagramma delle funzioni di abitare quella casa e tutte le altre case non sono che variazioni di un tema fondamentale. La parola abitudine è una parola abusata troppo per poter indicare il legame appassionato del nostro corpo che non dimentica la casa indimenticabile.”

immagini della casa che ricordiamo

Non è solo il nostro essere bambini in quella casa, non è soltanto ricordare l’atmosfera della famiglia che adesso non c’è più. E’ anche un ricordo vivo delle mura della casa.

Il corridoio lungo dove si affacciavano tutte le stanze

La cucina col tavolo anche sotto alla finestra

Il tavolo col piano di formica screziata di bianco

La tendina della finestra sulla  piccola corte

Il ripostiglio con l’odore di cera

Le finestre da cui si vedevano le colline

Il riflesso del lampadario di cristallo nello specchio dorato

Le piastrelle del bagno con i disegni che diventavano qualcosa che volevi come le nuvole

La ciotola di argento con le palline di lacca rossa che si potevano svitare

La poltroncina di velluto blu dove la nonna lavorava all’uncinetto

L’armadio dove si nascondevano le tavolette di cioccolata

Il punto preciso della cucina dove era appesa la gabbia dei pappagallini

Il divano rosso scuro del salotto “buono”

Il tavolo laccato lucido che si apriva a libro

Il copriletto a quadri rosso e nero per l’estate e di quello di lana ruvida per l’inverno

Il terrazzo stretto dal quale vedere la strada e la vita tranquilla che si svolgeva  fuori.

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