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Lo spazio e la cura

La maestra Angela che abita la sua aula come fosse una casa è un esempio recente e lampante di quello che può significare vivere in uno spazio che “ha cura”: un luogo che ci affranca, che ci dà pace e sicurezza, ci fa ritrovare in noi e che ci dispone alla relazione. Si tratta di un’aula senza cattedra dove la maestra siede in mezzo ai bambini e che è arredata come se fosse una casa.

Ci sono tende, cuscini, tazze, piante, cesti porta giochi. C’è anche un angolo morbido, dove le storie si raccontano seduti per bene, comodi, per far sì che i pensieri entrino meglio. Siamo a Genova, dove Angela Maltoni, maestra all’Istituto Comprensivo Cornigliano, ha costruito il suo speciale angolo didattico.
«Ho sempre avuto aule variopinte e ricche di materiali – spiega – ma dall’anno scolastico 2008/2009, quando ho dato vita al progetto di sperimentazione didattica “Insieme per un futuro più equo”, ho allestito l’aula seguendo, in parte, le teorie di Celestin Freinet che coinvolgono attivamente i bambini nelle azioni didattiche. Il mio progetto prevede attività di bilinguismo, plurilinguismo e l’insegnamento secondo un curricolo interculturale in cui le differenze diventano risorsa di arricchimento reciproco. Questo ha reso necessario sfruttare anche le pareti, decorate con grandi cartelloni di alfabeti in varie lingue. Aver abbracciato scelte pedagogiche e didattiche diverse è stato il motore di tante piccole ‘rivoluzioni’ nel modo di insegnare. La scelta del metodo naturale per l’acquisizione della lettura e della scrittura e l’adozione alternativa al libro di testo hanno reso necessaria la creazione di uno spazio-biblioteca multiculturale all’interno dell’aula, con testi in tante lingue e la predisposizione di scaffali dedicati a custodire oggetti stimolanti per la scoperta della scrittura. La scelta inoltre del metodo narrativo e la proposta, ogni giorno, della lettura di un libro come avvio alle attività, ha portato alla creazione di un angolo morbido, con tanti cuscini colorati dove i bambini si siedono in cerchio, ascoltano il racconto ad alta voce e affrontano momenti di conversazione e discussione.

10689692_300731516782551_5653987404764188117_nUn ampio spazio raccoglie i pupazzi e le marionette che vengono utilizzati non solo per il gioco libero ma anche per le drammatizzazioni, utili a far venire fuori i vissuti personali. La scelta di lavorare in gruppo e in modo cooperativo determina la disposizione dei banchi a isole e l’assenza della cattedra. Il materiale didattico come penne, matite, colori, gomme, è in comune, e viene disposto sulle isole in contenitori e usato liberamente da tutti. I bambini della mia classe sperimentale provengono da tante parti del mondo e si portano dietro la ricchezza di lingue e culture diverse. Questa modalità di lavorare in gruppo e di avere spazi liberi e coinvolgenti a disposizione li aiuta a socializzare più in fretta e a imparare ad apprezzare le diversità. La condivisione del materiale scolastico li abitua a una convivenza partecipata e accettata in cui tutti si sentono uguali».

Le “tante, piccoli rivoluzioni” della didattica hanno così inciso e condizionato lo spazio, che è diventato “casa”, una casa dove gli alunni di Angela imparano meglio, socializzano meglio, escono dalle lezioni senza traumi e nervosismi. Certamente il loro apprendimento risulterà migliore, e alla fine tutta scuola risulterà migliore.

Un cura dello spazio che ci piacerebbe pensare in ogni circostanza pubblica: gli uffici, le banche, gli ospedali!

Già, proprio e s10521756_300731550115881_1780054947750474467_noprattutto gli ospedali, dove, come scrive Ida Farè -che è stata docente di Architettura al Politecnico di Milano- nel libro “Abitare la cura: riflessioni sull’architettura istituzionale” a cura di Sergio Marsicano, «si vive come in un altro mondo: camere asettiche, arredi gelidi e metallici, mobili immobili, finestre che non si aprono, bagni senza specchio, squallide stanze di attesa con quelle seggioline di plastica in fila lungo le pareti, dove ogni visitatore siede come messo al muro e dalle quali in cuor suo spera di allontanarsi al più presto. Insomma pare proprio che lo spazio sia la cenerentola dei luoghi di cura e che l’architettura sia una parente lontana e sconosciuta nei luoghi di malattia.»

Eppure, se guardiamo, fin dal 1860 c’era una attenzione in questo senso: Florence Nightingale, fondatrice della moderna assistenza infermieristica nel suo “Note sulla Cura” dedica un intero capitolo al letto d’ospedale che deve essere basso, di ferro, scostato dal muro da entrambi i lati, e non lontano dalla finestra in modo che il malato possa vedere fuori. Un altro capitolo parla della luce, di quale sia l’esposizione migliore, e che si lasci entrare il sole. Scrive: «Una leggera cortina bianca al capezzale e alla finestra una stuoia verde che si possa calare a volontà sono più che sufficienti perché dove è il sole là è il pensiero

Frequentando le strutture ospedaliere possiamo invece ben notare che «proprio quando il corpo è fragile e bisognoso, tutto ciò che fa sentire bene e a nostro agio dentro lo spazio della casa viene totalmente dimenticato e come la vita dei pazienti sia determinata esclusivamente dalle logiche dettate dalla terapia in spazi sgombri, freddi, a volte abbandonati e comunque organizzati soprattutto in funzione delle attività di lavoro del personale medico.» (cit. Ida Farè)

Noi crediamo fermamente che poche esperienze di vita siano significative per l’esistenza, quanto l’abitare, crediamo che Casa significhi tracce, cura, atto magico, spazio “desiderato”, una vera risorsa che permette di ancorarsi a situazioni piacevoli, ricordi ma anche nuovi stimoli e quindi nuove opportunità, crediamo che Casa sia – in sostanza – il mantenimento della propria identità, che lo spazio vissuto non sia una scatola vuota e che abitare non significhi semplicemente “stare in un luogo”, ma anche costruire delle relazioni significative, dei rapporti con persone ed oggetti (in genere gli oggetti che l’abitazione contiene e custodisce sono le cose che si amano e che si sono scelte) che però, evidentemente, 1398901_193219354200435_642436949_osembrano incompatibili proprio con la coatta esperienza ospedaliera.

Vorremmo che le strutture ospedaliere si umanizzassero non solo attraverso l’offerta di suppellettili utili a questo scopo ma anche – fondamentale – attraverso l’analisi dello spazio e la continua manutenzione da parte degli operatori per una consapevolezza costante del luogo e degli effetti benefici che può offrire a tutti (ricoverati, loro familiari e operatori stessi). Le persone ricoverate in un ospedale sono sotto stress, provano dolore e paura, vivono l’esperienza di ore di solitudine che sembrano infinite mentre la struttura ospedaliera in genere è fredda, non curata, deprimente. Si tratta perciò di cambiare l’atmosfera!, alleviare lo stress e l’ansia del paziente e incoraggiare la guarigione attraverso l’armonizzazione dello spazio, proprio come ha fatto la maestra Angela nella sua aula della scuola di Genova.

Come dice il filosofo Silvano Petrosino ci piace pensare alla casa come «un luogo dove l’uomo possa vivere senza vergogna e senza censure, un luogo dove la sofferenza resta sofferenza, dove il difetto resta difetto, la paura resta paura, ma tutte queste cose sono ospitate, non sono più negate. Un luogo pacifico dove si è accolti»

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Il viaggio è lungo, anzi lunghissimo. Dall’aereoporto caotico di Phuket il pulmino bianco ci accoglie con l’amichevole sorriso dell’autista e benefiche bottigliette di acqua fresca e ci porta, salendo verso est, sulla penisola collinare di Cape Yamu.

Arrivare sfiniti dal viaggio può rendere cupa ogni visione ma qui non si corre certo questo rischio: quando dalla scala si intravede quel tripudio di tavoli indonesiani ricolmi di fiori e di oggetti come fosse un altare, impossibile non sentirsi attraversati da un’energia rigenerante.

E allora lo sguardo continua un viaggio instancabile: nella lobby che accoglie gli ospiti con i bianchi divani pieni di cuscini, gli angoli con piccoli tavoli di legno e poltroncine, le panche scultoree che si stagliano sul mare, la parete “pixel” fatta da migliaia di legni, le candide lampade giganti merlettate, le grandi colonne rivestite “a picassiette” che delimitano il pergolato realizzato con tegole speciali impermeabili al clima caldo umido e alle stagionali piogge della zona. Si intuisce subito che il progetto ha colto lo spirito del luogo, scegliendo materiali e inserendoli con armonia nell’ambiente naturale. Tutto è pensato per quel posto preciso e realizzato da artigiani del territorio. Sarà che su quello splendido vassoio rosso di benvenuto offerto da una sorridente fanciulla vestita di bianco, la coccarda di tuberosa appena intrecciata ci inebria col suo profumo e quella tazza di the al ginger restituisce la forza: il desiderio è quello di continuare il viaggio in questo spazio speciale.

Como Hotels e Resorts di Singapore è il brand di Cristina Ong che ha chiesto a Paola Navone di progettare interamente l’interior design su una struttura architettonica preesistente abbastanza inquietante e rigida per quel luogo. E che lei, accettando con entusiasmo, ha realizzato in due anni con un lavoro appassionato di ricerca e progettazione di ogni dettaglio insieme al suo team. Da alcune finezze architettoniche ai cucchiai, dai tessuti a tutti gli arredi, dai piatti alle lampade, dal decoro grafico dei tetti che si vedono dalle finestre al rivestimento di bambù dipinto di bianco degli ascensori, in un mix con oggetti di produzione da lei disegnati e con altri di antiquariato e artigianato locale.

L’attenzione a ogni particolare che si percepisce vivendo a Point Yamu è qualcosa che si svela straordinario, qualcosa che si potrebbe definire “pedagogico”, da cui tutti possono imparare, come una sensibilità da acquisire nella vita di tutti i giorni: proprio a questo servono i bravi designer. Mai come in questo caso però è restrittivo definire designer Paola Navone. Lei in questo lavoro è, più che in ogni altro, una specie di sacerdotessa dell’abitare, colei che interagisce con successo con i bisogni di chi vive quegli spazi, cercando di rispondere ad ogni possibile richiesta, anche quelle che non si manifestano consapevolmente.

Percorrendo il corridoio di foglie di bambù intrecciate che creano un tunnel – luminoso e solare – in fondo al quale un punto o un cerchio rosso orienta il cammino, le 106 camere, distribuite sui 3 piani delle parti laterali dell’edificio, ognuna col suo numero in ceramica crackle, la lampada speciale a bulbo di Nacho Carbonell e l’immancabile ciotola in alluminio decorato in cui galleggiano i fiori, si affacciano come ospiti festosi che danno il loro benvenuto.

Le camere, suddivise in tre colori – turchese, lavanda e blu (solo la suite presidenziale è bianca) – che ricorrono nei tessuti, nelle piastrelle e negli accessori, sono grandi e luminose, con i pavimenti di cementine bianche e grigie tipiche del luogo. Tutte con un bagno da sogno dove la vasca rotonda naviga in un acquario rivestito con le ceramiche artigianali colorate nelle tre tonalità, un salottino con divano, un tavolino basso, una consolle e un mobile-credenza, un letto grande e comodissimo in legno e/o in tessuto, un armadio ultracomfort, e poi lampade, ceramiche. Mixati ogni volta in modo diverso così che ogni stanza sia sempre un po’ unica e speciale. E tutte si affacciano su un terrazzo privato dotato di almeno una coppia di dormeuse da esterno con un tavolino, alcune con piscina privata. Dal terrazzo, a 360 gradi, si ammirano le isole Andatane, una natura rigogliosa e un mare di un azzurro potente: una vista che lascia incantati.

Se poi si prosegue il viaggio verso le aree comuni: nella scintillante e immacolata Private Dining Room con la sua porta rosso lacca e l’antica mano gigante di una statua che funge da maniglia, nei ristoranti (quello turchese e grigio italiano “La Sirena” con la lunga parete con centinaia di piatti bianchi, e quello rosso e oro Thai “Nahmyaa” con i grandi pesci rossi realizzati con il mosaico), in altri corridoi dove la progettista ha giocato con materiali diversi che diventano muraglie che si intersecano e si fronteggiano (di ceramica smaltata, di scaglie di legno invecchiato, di sassi, di cementine), nell’Aqua Bar con la scultura aerea sul bancone, nella Tea Room della Lobby con il decoro a scritte thai sul soffitto, nei salottini (persino le aree tecniche antincendio sono decorate con tende di fiori o grafiche), nei pergolati, nei percorsi con l’acqua che riecheggiano lidi veneziani, nelle scale che ritmano e scaldano le alte mura grigio verdi, si arriva al “fuoco”, al centro del Resort ovvero la COMO Shambhala Retreat Spa e, sotto di essa, la piscina, lunga 100 metri, che sembra finire tra il cielo e il mare. Perfino gli ombrelloni che circondano la piscina sono stati punto di attenzione, portati come sono in spalla da meravigliosi allegri elefantini, e, con lo sguardo verso la piscina all’orizzonte, un cubo di sassi sembra emergere come l’isola che non c’è. Sembra che la visione sia calibrata su pieni e vuoti, su grigi e azzurri, su texture di materiali diversi, su piante verdi già cariche di fiori che cresceranno rigogliose e si arrampicheranno sulla lamiera a larghe maglie colorata in verde che riveste la struttura, raccordando così l’architettura all’ambiente.

Paola Navone ci comunica tutta la sua idea di bellezza: la semplicità prima di tutto, il piacere di vedere ed usare le cose che hanno attraversato secoli e continenti, il fascino intenso e commovente delle forme imperfette di quando gli oggetti sono fatti a mano.

Ogni spazio merita una descrizione per la ricchezza dei dettagli: tutto ha un senso, tutto ha una storia, tutto è curato, tutto ha un legame col territorio. Ecco, anche per questo senso di cura, di amore, di attenzione, la Spa Shambhala diventa il fulcro del progetto: entrarci, indossare la mise bianca che viene offerta, entrare con le ciabattine candide nelle stanze dedicate ai trattamenti o a piedi nudi nella grande stanza dei massaggi thai col pavimento in teak circondata e attraversata dai ricchi tendaggi di lino bianchissimo, osservare la luce filtrata dagli screen intrecciati delle grandi finestre, sedere sulle poltrone delle aree in ceramica turchese intenso, con un profumo che vorresti interiorizzare e portare sempre con te, ci fa sentire al centro della cura, al centro di un mondo da abitare, anche solo per pochi giorni.

Lilli Bacci

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photo by Menno Aden

“Spesso mi mettevo a cucinare nel primo pomeriggio. (…) era felicità e al tempo stesso uno stato molto preciso di abbandono ad un pensiero in divenire. Lentamente con cura, perché durasse di più, in quei pomeriggi cucinavo per quelle persone assenti.  Se non c’era una minestra pronta, non c’era niente, (…) allora non restava che mondare la verdura, mettere a cuocere la zuppa e scrivere. Nient’altro.”

Marguerite Duras “La vita materiale”

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