Parigi fuori scala
Parigi. Rue du Faubourg Saint-Antoine, nell’11ème arrondissement (uno dei più importanti quartieri residenziali della città che fu il cuore della Parigi rivoluzionaria e delle grandi rivolte operaie del XIX secolo e che ospitava tre prigioni come la Bastille, la Petite e la Grande Roquette, ora demolite), è una strada animata, trafficata e rumorosa, oggi un quartiere di artigiani e produttori di mobili. I cortili che si aprono dietro ai portoni e ai cancelli sembrano creati per uscire con dolcezza dal caos della città. In questa strada, in un portone dove corridoi e cortili si susseguono, si arriva alla casa di Paola Navone, salendo una scala che è già un tuffo in un’altra dimensione: nuda, sconnessa, delabrè. Appena si varca la soglia, quello che arriva come un bagliore abbacinante sono le 12 finestre che percorrono le 4 pareti principali. Uno spazio immenso, nudo, semplice, che Paola ha lasciato così come le si è presentato la prima volta: “il progetto era già fatto” dice lei. Nessun progetto fatto a tavolino, ma spazio vissuto e in continuo divenire. Con il pavimento di assi di legno, i mattoni delle pareti, le dodici gigantesche finestre.
Una struttura meravigliosamente arricchita dai suoi oggetti, dalle sue creazioni, dai pezzi raccolti nei suoi interminabili viaggi.
Lo spazio che si apre davanti agli occhi è bianco, allegro, incandescente, sorprendente, come quelli che lei sempre ricrea nelle sue performance visive.
Siamo un po’ come Alice Nel Paese delle Meraviglie perché siamo piccoli di fronte ai suoi oggetti giganti, quasi tutti fuori scala: dall’ immenso divano bianco con un milione di cuscini (da lei progettato per Casa Milano), alla gigantesca Naska Loris, dalla grande mano in legno delle Filippine, alla lunga armadiatura con le ante in ferro che dividono la cucina dal resto dello spazio, dalla sospensione-scheletro-di-crinolina decorata coi fiori di seta a quella in garza bianca Koushi (del fotografo americano Mark Eden Schooley).
Quando gli oggetti hanno una dimensione “umana” lei li moltiplica, li esaspera, li rende ironici, come i tavolini Vulcano disegnati per Poliform e interpretati uno diverso dall’altro, come le sedie -che lei adora- che sono ovunque, una diversa dall’altra: intorno al tavolo tondo della zona pranzo, nell’angolo sotto la finestra a formare tanti salottini da conversazione, vecchie sedie, carcasse reinterpretate con materiali fluo e decori indiani, sedie etniche, sedie contadine, sedie di design.
Separata dall’armadio e da due tende bianche c’è la cucina destrutturata in acciaio inox (“Pastasciutta”, che lei ha disegnato per OpinionCiatti) con il bellissimo lavabo ovale ( “il massimo per me, per lavare tutte le verdure che voglio” dice Paola) e con la fantastica varietà di mestoli e mestolini che fanno respirare la magia di tutte le cucine del mondo. Al di là delle due tende, uno da una parte, l’altro dall’altra, i due tavoli: quello tondo sotto la lampada-crinolina e circondato dalle sedie una diversa dall’altra, perfetto simbolo delle diversità che si incontrano nella condivisione del cibo… e quello rettangolare, arrivato lì come per casualità, dalle assi da cantiere dipinte di grigio e tenute insieme con una stringa rossa, e circondato dalle sedie cinesi dipinte di verde clorofilla.
Poi le camere, entrambe sognanti e scherzose: quella di Paola tutta piastrelle color dell’acqua (di Franco Pecchioli), come se l’acqua dal bagno fosse entrata nella stanza come un’onda birichina; quella degli ospiti rosso lacca e blu d’oriente, che rivive dalla casa di HongKong che Paola ha lasciato, e che ci riporta immediatamente a quella atmosfera.
Paola dice di questo spazio che le “si adatta con una semplicità naturale”, un po’ come le scenografie temporanee che lei è così brava a creare e a regalare alla vista di tutti ma che sono così profondamente legate alla sua personalità. Paola si riconosce: nell’allestire ma anche nell’abitare, unica e irripetibile, originale e spontanea. Le viene così, come una seconda pelle.
Lilli Bacci