Fino al 1987 non c’era mai stata alcuna relazione, nei servizi fotografici, tra la moda e il design sebbene fossero sin da allora due -come si usa dire- “eccellenze” italiane che in quel periodo erano in grande espansione. Ebbene, da una “geniale intuizione” – sono le parole stesse di Gastel- di Gisella Borioli (direttore allora di Donna magazine), arriva il primo tentativo di unire la moda e il design italiani in uno shooting. Nasce così il servizio, di Micaela Sessa da lui fotografato: “Le stanze del colore”.
Passaggio fondamentale, storico potremmo dire, forse ignorato in quegli anni: quello di fare ciò che da lì nel giro al massimo di un decennio, sarebbe diventato imprescindibile per gli stessi stilisti che andranno ad occuparsi anche del design con collezioni da loro stessi firmate.
Nel 1993-1994, grazie alla lungimiranza creativa di Renata Prevost Art Director della Garage Comunicazione e di quella imprenditoriale di Claudio Luti (che non a caso proveniva da Versace) di Kartell, Gastel viene chiamato a fotografare il nuovo catalogo prodotti. Per la prima volta un fotografo di moda è chiamato a realizzare un catalogo di design. Di questa esperienza posso parlare in prima persona perché di quel catalogo sono stata location manager e coordinatrice dei set .
Giovanni Gastel aspettava, osservava in silenzio e poi con un tocco leggero ma deciso, agiva. Quasi un processo junghiano di immaginazione attiva, di cui diveniva immediatamente consapevole. E lo faceva in modo tutto suo, un modo che all’improvviso apriva squarci, anche quando pareva ci fosse solo buio. Si trattava di squarci per lo più poetici, mentali, era quella la luce: quella della poesia che si faceva largo nelle sale vuote e rimbombanti di ville, di manifatture, di centrali termoidrauliche o negli androni decadenti ma fascinosi industriali o urbani che faticosamente avevo cercato.

Ricordo con gratitudine questo di quel bellissimo lavoro che ci fece incontrare -felicemente incontrare- per realizzare qualcosa che per quei tempi era inedito e rivoluzionario nel mondo del design: per la prima volta un fotografo di moda “trattava” gli accessori di design come fossero gli abiti di una modella. Ma “il punto” non era questo. Il punto era il suo metodo. A volte in quelle location inusuali eravamo sopraffatti dai luoghi, dai vuoti, o dai troppo pieni, da quegli oggetti che piccoli navigavano in quegli spazi spesso immensi. Lui arrivava e davvero con il suo colpo di genio risolveva l’immagine creando fantastici scenari onirici, come -prima tra tutte- la meravigliosa Chioma di Berenice che vedemmo formarsi davanti ai nostri occhi di fronte alla libreria rossa Bookworm di Ron Arad fantasiosamente montata su una parete bianca, con la modella dai capelli rossi a cui Gastel chiese di indossare un drappo di tessuto rosso. Una foto diventata iconica.

La prima immagine di quel catalogo che fu realizzata me la ricordo quasi con commozione, e se la guardo ancora riesce a farlo, non solo perché fu la prima e che spiega quello che dicevo all’inizio del modo di lavorare di Gastel sull’improvviso colpo di genio poetico. Eravamo nel salottino adiacente le scale, con quel senso un po’ sconsolato del primo giorno di shooting quando la fase organizzativa ha la prevalenza e non si riesce tanto ad ingranare. Lui si alzò pregandoci di prendere le scalette Tiramisù, tutte quelle nere che erano arrivate, si guardò intorno, ci disse di posizionarle sulla scala, fece vestire da Pina Gandolfi, la stylist che lavorò con noi, la modella di nero come le scalette e la fece mettere anche lei lì e così come se la forza di un pensiero soprannaturale piegasse la scaletta fece il movimento delle Tiramisù…
Ma spiega anche qualcosa di molto più profondo che Giovanni Gastel sosteneva, ossia che ognuno è un essere unico, e che “la fotografia è fatta da spirito ed intensità della seduzione”, che non è solo verso un uomo o una donna, ma tra un uomo e un oggetto, tra un uomo e la natura.
Non è forse una immagine di seduzione questa?
Così come estremamente seduttive sono le immagini scattate al quartiere Gallaratese al “Monte Amiata” il condominio rosso e giallo di Aldo Rossi, che scegliemmo per ambientare i tavolini e le sedie di Starck.
Un metodo -dicevamo- che unisce in un processo rapido osservazione/creazione/consapevolezza offrendo un prodotto finale che grazie a questa “centrifuga” restituisce un valore in più, che è quello che qui intendo per poesia e seduzione. Credo che questo sia valido per ogni lavoro che Gastel affrontava, fosse moda, design, ritratto. È stato un privilegio poter vedere questo con i propri occhi.
E comunque Design e Moda si confondono, si mescolano, così come nella vita, nel nostro quotidiano, nel nostro vivere la città e la casa. Nel nostro essere noi stessi, quello a cui Gastel teneva più di ogni cosa.
Elle Decor Magazine
Il percorso di Gastel non si è più fermato in questo senso e anzi ultimamente lo hanno visto protagonista importanti campagne stampa e cataloghi di aziende di design e memorabili servizi per riviste di settore. A noi piace ricordare qui i servizi realizzati con Elisa Ossino per Elle Decor dove al rigore progettuale e alla ricerca di Elisa Ossino e del suo studio, si è unita la visione speciale di Giovanni Gastel, la sua raffinatezza, la sua regia gentile, il suo senso del colore e della luce, la sua cultura, la sua conoscenza dell’arte e la sua consapevolezza delle cose.


Elle Decor Magazine “Ritratti di Living” Servizio di Elisa Ossino: un inaspettata rivisitazione dello stile di Hopper per descrivere stanze dedicate al relax. Visioni di interni in dialogo con l’esterno, dove i protagonisti sono mobili di design sia nuovi che classici.
Nel 2010 ha collaborato con Slide ritraendo loro best seller come la poltrona Low Lita di Paola Navone, il divano Rap e la poltrona a dondolo Blos di Karim Rashid. Sono prodotti che Gastel ha trattato proprio come ritratti, su fondo nero, con le luci che riflettono le curve e i materiali. Nessuna ironia per oggetti che già giocano per conto loro, piuttosto paiono osservati con una serietà e una attenzione che non gli è mai stata prestata.
 
Sfogliando il catalogo Venezia di Rubelli -concepito come una rivista con vari servizi realizzati da stylist e fotografi diversi- ad un certo punto sembra di essere capitati da un’altra parte, e non solo per gli scatti “moda” per il prodotto Colours con l’inseparabile Micaela Sessa dove è inserita anche una poesia di Giovanni Gastel: “Se lo splendore /di questo tessuto/fosse lo specchio/della tua anima/amore/ora potrei illuminarmi/della tua luce argentata.” Ma perché c’è una vivacità, una ironia, un gusto grafico e una eleganza che dona una vitalità speciale a tutto il progetto nel suo insieme.
Per Artemide nel 2019 lavora con Luca Stoppini su un doppio binario: per il catalogo con foto bellissime di prodotto e per la campagna stampa ambientando le lampade in situazioni di giovani della iGeneration, nativi digitali, tecnologici, sostenibili, multiculturali con una visione globale (la campagna del brand era denominata GenerAction). Protagonisti reali, giovani talenti che l’azienda ha deciso di aiutare negli studi e nei progetti di ricerca.
 
La campagna stampa di Edra, sempre nel 2019, vede la raffinata modella Leticia Herrera, che ripete la sua immagine in diverse posizioni sui vari prodotti scelti in modo tale da esprimere con la sua grazia ed eleganza le infinite declinazioni del comfort: Gastel moltiplica questo concetto e pone sempre al centro un dettaglio importante, lo riquadra come per farci toccare l’essenza e la qualità della collezione. Lo spazio è smaterializzato, è uno sfondo neutro, a dimostrare che Edra non è un solo stile e i prodotti entrano con naturalezza in ogni ambiente.
La scelta è stata il bianco e nero: l’immagine fotografica nella sua purezza e potenza visiva, per creare una identità forte a cui il brand risponde e continua ad aspirare.


Mirabile la campagna per Living Divani realizzata con Elisa Ossino e lo studio Lissoni,: divani come icone atemporali che fluttuano in uno spazio rarefatto. “Volevo renderli eterni” ha dichiarato Gastel in una intervista.

Nel frattempo per Poltrona Frau ha realizzato una campagna stampa che vedeva le sedie e le storiche poltrone dell’azienda di Tolentino ambientate in antichi palazzi e ville strepitose ma fotografate da sole, come protagoniste indiscusse su uno speciale ed esclusivo palcoscenico ma nel contempo, quasi a equilibrare la distanza che poneva questi prodotti quasi irraggiungibili dall’uomo, firmava un libro e un filmato intitolato “L’intelligenza delle mani” dove l’artigianalità, il saper fare, la relazione tra chi lavora insieme quindi anche gli sguardi, i gesti, i valori tornavano importanti da esaltare. Perché Gastel cercava questo anche nelle cose, cercava l’anima, cercava la vita.
 
E anche raccontava la sua malinconia, la sua nostalgia per le cose e infatti amava molto uno scritto di Ettore Sottsass tratto da “Rovine” del 1992 che diceva: “Quello che ci rimane da vedere, forse, è il passaggio di una nuova nostalgia, tra le tante che ci inseguono, una nostalgia tutta speciale, quella strana, penetrante, onnipresente, permanente, ossessiva nostalgia che è la nostalgia per l’Enigma, l’unica finale attrazione d’amore. Quando guardiamo il paesaggio dei ruderi depositati nel passato, quando attraversiamo i paesaggi delle città sepolte nei deserti, i paesaggi dei templi stritolati dalle foreste, i paesaggi delle pitture immobili, nelle penombre dei musei, noi che viviamo ora, nel tempo presente, non potremo riconoscere altro che una impietosa nostalgia, non potremo riconoscere altro che memorie sospese. Quello che noi, noi stessi possiamo riconoscere o forse soltanto ricordare è che tra la nostra vita pulsante, tra la consapevolezza acuta dell’esistenza, tra gli orgasmi vitali e il tempo, lo spessore si fa sempre più sottile, orribilmente sottile, com’è sottile, orribilmente sottile e sempre pronto a lacerarsi, lo spessore tra un amore che c’è, che teniamo tra le mani, con il quale viviamo ora la sua memoria. Viviamo il presente dentro a milioni di memorie, dentro a una sauna di nostalgie, inorriditi per come è sottile il tempo, per quanto poco è il tempo che riusciamo ad usare, quello di cui riusciamo ad avere consapevolezza.”
Ettore Sottsass diceva che il design è un modo di discutere la vita e di costruire una metafora della vita. Giovanni Gastel sosteneva che i volti delle persone donano il senso della vita. Sottsass e Gastel si incontravano ogni estate a Filicudi, isola amata dove erano vicini di casa.
#iorestoacasa ci viene ripetuto, consigliato, ora imposto anche da un decreto legge e siamo, chi ha la fortuna di averle, tra le nostre quattro mura a cercare di impiegare il nostro tempo riscoprendo affetti, valori e atti domestici. Improvvisamente, io che ho “vissuto” di questo tema della casa, mi ci sono riempita occhi di immagini, bocca di parole, cuore di sentimenti e testa di bei concetti, mi trovo svuotata e intravedo una retorica che mi tiene a distanza. Eppure potrei affondare qui tutto il mio “sapere” oppure tutto il mio desiderio di impastare di emozioni questo argomento dell’ abitare sul quale lavoro, elaboro e rifletto da sempre.
#iorestoacasa: c’è chi studia, chi tele-lavora, chi mette in ordine dove non lo faceva mai, chi pulisce la casa come non aveva mai fatto, chi impara a cucinare, a fare torte, chi gioca, chi scrive, chi disegna, chi legge, chi guarda film, chi fa yoga, chi medita, chi salta la corda, chi guarda foto, chi suona, chi sta sempre connesso, chi non si connette più, chi non fa che dormire, chi forse non sopporta già più nessuno…
La casa cosa è e cosa diventa? Un contenitore imposto col quale trovare dei compromessi per non angosciarsi, per stare meglio dentro di noi? Un luogo dove si cerca conforto dalla disperazione dell’impotenza che genera questo momento pazzesco o dove ci sentiamo solo imprigionati? Sicuramente uno spazio in cui adattarsi e trovare buone pratiche interne che ci servono, ma comunque qualcosa che allontana la mia visione della casa come spazio vitale in cui la persona trova identità, “esiste abitando”, si “rannicchia per vivere poeticamente nel mondo” per dirla con due dei grandi che hanno teorizzato su di essa (Heidegger, Bachelard)…
In questo tempo mi sento più attratta dalle iniziative bellissime che si mettono a disposizione della comunità: quella che si dice “solidarietà digitale” da una parte per chi ha la possibilità di connettersi, o le reti dei quartieri e dei comuni per le persone fragili e anziane (vedi il Comune di Milano, spero tanto che questo avvenga anche in molte altre città). In queste ore brutte guardo con più speranza alla comunità piuttosto che alla casa – lo devo dire – io che ho sempre visto la casa come la grande terapia.
La mia casella in questi giorni è intasata di posta: il server mi chiede di “liberare spazio” perché sto “esaurendo lo spazio di archiviazione”, dice. Ma come mai? È presto detto: sono una giornalista freelance, la mia posta è intasata anche dalle missive del Salone del Mobile eppure entro nel loro sito e scopro che la mia categoria è misconosciuta. Il mio indirizzo mail è -leggo- “non accettato” così come -leggo sempre più basita“yahoo, hotmail o altri provider. L’indirizzo mail deve indicare chiaramente l’ufficio editoriale della rivista o l’editore. Non saranno accettate lettere pdf o stampate.” Comunque tornando alla mia casella di posta gmail loro non accettata ma usata per inviarmi comunicati stampa, è intasata perché altre aziende come la loro pensano di rivolgersi ad una professionista -che per altro lavora da vent’anni e passa- di cui però loro stessi NON RICONOSCONO la professione. È un bel paradosso, e una grande ingiustizia. Ma comunque un grande demerito. Alla conferenza stampa si è parlato di Milano che è grande in una Italia -ahinoi- molto piccola. Ecco fa molto, moltissimo dispiacere constatare che proprio in una fiera di portata internazionale in questo specifico punto dei freelance, laddove le fiere europee incentivano il lavoro dei freelance (si dà il caso che la crisi dell’editoria non permetta certo nuove assunzioni), Milano decada a provincia piccola piccola e con lei il prestigioso Salone del Mobile.
Sono libri fotografici che produciamo su vostra richiesta sulla vostra casa o su una casa cheamate.
Dovete lasciare o semplicemente trasformare la casa dove avete vissuto? La casa della vostra infanzia viene venduta o affittata ad altri e la dovete svuotare delle vostre cose?
E’ mancata una persona cara della vostra famiglia e dovete chiudere e svuotare la sua casa?
Prima che questo avvenga, se volete mantenerne il ricordo di ogni suo angolo noi possiamo entrare con voi e fotografarla, molto semplicemente e molto liberamente, così com’è, senza “aggiustamenti”, solo con il cuore e seguendo le vostre emozioni.
Vi consegneremo il prodotto finito, confezionato in un vero e proprio libro stampato, con copertina e, se volete, con qualche scritto e magari la vostra storia.
Perchè questo noi siamo: la nostra scrittura e le nostre cose: questo il nostro lascito e, ben più esattamente che in una nota biografica, il nostro curriculum.
per i costi per il libro che proponiamo nel formato quadrato 20×20 o 30×30 e che comprendono il servizio fotografico realizzato con smartphone di alta qualità, l’impaginazione grafica e la stampa di una copia scrivete a:
Non si richiedono altre spese se il servizio fotografico si svolge a Firenze o a Milano o nelle vicinanze delle due città. Per altre località, si richiederà un rimborso spese per il viaggio e l’eventuale vitto e pernottamento.
UN FUORI SALONE DIVERSO: IL DESIGN SENSIBILE IN ZONA 5
C’è molto entusiasmo e molto fermento per questo “numero zero” in zona 5 (Via S. Gottardo/Via Meda/Chiesa Rossa/Piazza Abbiategrasso/Conca Fallata). Non si tratta di proposte consuete per l’ennesima zona proposta tra le tante nel Fuori Salone: il Municipio 5 insieme agli organizzatori punta su cooperazione e umanizzazione, design etico e sostenibile, attenzione ad aspetti profondamente legati alla persona inserita in una comunità. L’iniziativa, ideata da Massimo Caiazzo coinvolge i visitatori in un percorso dedicato alla possibile integrazione tra l’uomo e l’ambiente urbano, tra persone fragili e lavoro, per rendere più piacevoli le azioni e le relazioni quotidiane e valorizzando i singoli e la collettività. Un modello di cooperazione tra cittadini, associazioni, istituzioni e realtà imprenditoriali che sottolinea la necessità di umanizzare il design per creare contesti sereni e vivibili da tutti, nel pieno rispetto del benessere e della dignità della persona e di tutta la comunità. Una grande occasione per rigenerare e rivitalizzare il tessuto sociale e culturale del quartiere e per offrire un approccio diverso al design nell’ottica di una reale valorizzazione delle periferie. In questa ottica il Municipio 5 ha sostenuto con forza tutta l’iniziativa. Un programma intenso e carico di contenuti che dal 17 aprile si svolgerà nelle location più significative con installazioni e mostre dedicate al tema insieme alle tante realtà eccellenti della zona: Zeus, Mauro Mori, Alessandro Guerriero e la scuola Tam Tam, Johnny Dell’Orto e Artè, Fulvio Michelazzi e il PACTA Salone, Marco Rizzuto, lo IACC-Italia e le esperienze sul colore, l’Hub… fino all’installazione di Dan Flavin alla Chiesa Rossa. Collaborazioni con associazioni importanti come Wurkmos e Ri-costruzioni, oltre a laboratori e conversazioni, occasioni uniche condotte da professionisti illustri.
“Il design è uno stato a sé e Milano la sua capitale”
Nelle intenzioni di chi ha creato questo slogan sicuramente c’è un significato che include bellezza, preziosità, appartenenza e realizzazione.
Costringe, tuttavia, a più di una riflessione.
La prima e più facile è: in che stato è il design?
E poi questo essere “uno stato a sé” siamo proprio certi che sia così auspicabile? O non sia più saggio lavorare affinché il design “socializzi” maggiormente, si apra finalmente al mondo e alle istanze sociali come i giovani e anche molti designer per fortuna già fanno?
Le conferenze stampa de iSaloni, nel corso degli anni, hanno sempre mantenuto lo stesso registro. Meglio dire: lo hanno mantenuto i contenuti espressi.
In un mondo che cambia vorticosamente la percezione è sempre quella di un evento che parla di numeri, fatto prevalentemente di uomini -a parte la splendida Marva Griffin col “suo” Salone Satellite che onora e apre ai giovani progettisti da ben vent’anni e la curatrice della mostra A joy sense at work Cristiana Cutrone che ha parlato di sostenibilità ambientale e sostenibilità umana- privo di agganci con i grandi cambiamenti sociali.
Proprio lo stesso giorno della conferenza che si è svolta al Metropol, l’Assessorato alle Pari Opportunità del Comune di Milano ha organizzato un convegno (che proseguirà il 24 febbraio alla Casa dei Diritti) dove si è parlato di esperienze di cohousing, di housing sociale, di come si sia trasformata la famiglia e siano aumentate le persone anziane e quindi si esigano nuovi progetti e nuovi modi di vivere lo spazio abitativo, dell’immigrazione e della integrazione… insomma delle “nuove frontiere dell’abitare”.
È -diciamo- “curioso” come il Salone del Mobile ignori tutto questo, almeno nei contenuti che sembra promuovere all’interno dell’evento che muove -ecco i numeri- 330.000 visitatori da 165 paesi con più di 2.000 espositori oltre ai 650 giovani designer del Satellite.
Speriamo che la mostra Millennials offra la possibilità di capire se queste “nuove frontiere dell’abitare” siano già metabolizzate da questa generazione e come potranno realizzarsi, speriamo che il video di grande effetto del maestro Matteo Garrone non offra solo suggestioni oniriche ma anche stimoli per capire in quale realtà si muove il design.
Noi non ci auguriamo che il design sia “uno stato a sé” ma ci auguriamo piuttosto che sia immerso nella realtà di ogni stato (Stato e stato), vivo, attento e pronto a fare da sensore di ciò che avviene e a restituirci cose, prodotti che ci aiutino nel nostro vivere quotidiano in continua, fertile e aperta trasformazione e che di tutto questo si parli senza temere di annoiare la platea, sempre ricordando che -come ci ha insegnato Josif Brodskij- “L’estetica è la madre dell’etica”
Lilli Bacci
* il titolo deriva da uno scambio con Virginio Briatore
La casa di Paola Navone nasce durante i mille lavori percorsi su tutti i fronti -hotel, case, allestimenti, eventi, negozi, design, decori…- e in qualche modo raccoglie in una sintesi tutte le sue performance e il suo senso del vivere i luoghi. È come se il suo spazio fosse il laboratorio in cui nascono le idee. Non a caso -tra l’altro- la casa è al piano superiore dell’area post industriale che accoglie il suo studio -lo studio OTTO- dove lavora con il suo fantastico team. Lì si produce ciò che sboccia dalla fervida mente di Paola e dal suo modo di abitare, si cerca di dare forma ai suoi appunti su sensazioni, colori, forme, superfici, impressioni raccolte dal suo continuo viaggiare, dal suo essere sempre in transito: « Il viaggio è diventato il mio modo di respirare, non importa quanto lontano. Viaggio inteso come forma di pensiero. Come modo di essere. Come occhio nomade che non smette mai di guardare, di stupirsi e di creare connessioni tra le cose più diverse. » -dice come suo mantra Paola- «un’esperienza totale, dove accumulo immagini che finiscono nel bidone della mia testa. E da lì, all’improvviso, tiro fuori qualcosa. Sono una nomade che ama mettere radici in tanti luoghi» dice di sé. E i luoghi dove le sue radici hanno attecchito un po’ più in profondità sono Parigi e Milano. Da pochi mesi hanno attecchito in un grande cortile della Milano industriale condiviso con officine e laboratori dove è nata la sua nuova casa studio. Per raggiungere l’ingresso si cammina attraverso un rigoglioso “bidongarden”. Un giardino anarchico e post industriale di erbe, rampicanti e arbusti cresciuto in bidoni di colore blu indaco che da solo sboccia, appassisce, rinasce e a volte si autosemina.
Sotto c’è lo studio che non ha perso la sua bellissima aria di opificio.
Sopra la casa. Tetto in lamiera ondulata. Muri grezzi. Pavimenti fatti di sassi. Grandi vetrate. Un soppalco affacciato su terrazzi-orti dove Paola “colleziona” piante aromatiche e fiori colorati “purché si mangino”.
Una casa che è uno spazio aperto in cui aria e luce circolano liberamente e il rumore della città non entra. “Se questo luogo oggi è la mia casa è colpa della luce – racconta – una luce intensa e diretta come quella di Parigi”
Questa casa dall’aria incompiuta e imperfetta racconta molto della curiosa padrona di casa che ammette con semplicità “La mia casa è dove sono io”.
Paola Navone ha fatto della contaminazione e della stratificazione la cifra del suo lavoro e la sua casa è proprio così. Libera. Bulimica. Costituita per accumulo fantasioso di cose, ciascuna con la sua piccola storia di mondo da raccontare.
Questa è Paola: l’alternanza di pieno e vuoto, la luce che gira in libertà senza ostacoli, gli oggetti che ha recuperato e che vivono la loro seconda vita, le creazioni di alcuni designer storici oppure emergenti, i suoi progetti in continuo divenire. Rigorosa nell’imperfezione, viene da dire di lei che l’imperfezione ama, nel senso di far incontrare tante cose in una estetica originale e piena di energia.
Ci sono gli oggetti di Paola Navone designer. Il grandissimo divano Gervasoni rivestito con tessuti Rubelli. Le sedie disegnate per Crate and Barrel e i tavolini Poliform e Baxter.
Il letto della collezione Letti&Co. Ciascuno di questi oggetti rappresenta per lei un’avventura nata dal bellissimo incontro con una persona o con un maestria artigiana.
Ci sono cose arrivate in valigia da qualche meraviglioso viaggio. Splendidi esempi di no-name design che svelano la passione di Paola Navone per l’Oriente e il Sud del mondo, dove qua e là ha affondato alcune delle sue radici. Come le lampade rosse scovate in un mercato cinese e ora sospese a schiera in cucina. E la bizzarra famiglia di sedie e sgabelli arrivati in questa casa da ogni altrove.
Ci sono pezzi unici mescolati ad allegre e strabilianti collezioni di oggetti accumulate per una prassi che Paola Navone chiama “antropologia delle cose” come se fosse la sua professione. Una collezione di bellissime e panciute ceramiche del Sud della Francia. Una raccolta di utensili, allumini e oggetti per la tavola. Una collezione di ceramiche turchesi provenienti dalle fabbriche di ceramica Thailandesi raccolte da Paola per più di due anni durante i viaggi di lavoro, incastonati nel muro come un mosaico tridimensionale.
Ci sono oggetti di recupero che vivono in questa casa la loro seconda vita. Poi cose della vita di tutti i giorni camuffate dalla visionaria creatività della padrona di casa e dalla sua attitudine a trasformare tutto in qualcosa d’altro. Allora non è strano che sui tavolini Poliform siano comparsi due grandi occhi, la scala in lamiera sia dipinta a pois bianchi come una scultura africana e il prezioso lampadario blu cobalto di Barovier&Toso penda con il suo cavo rosso da un tronco sospeso.
Questa casa trasmette un’altra cosa che appartiene a Paola Navone: una speciale, verace e intima mediterraneità. Si respira perdendosi nei colori che tingono le cose. Sono i colori dell’acqua. Blu in tutte le sue sfumature. Indaco. Turchese. Verde acquamarina. Ottanio.
Si respira toccando i materiali. I sassi e le piastrelle in cemento fatti per camminarci a piedi nudi. E guardando gli oggetti ispirati al mare, primo fra tutti l’enorme pesce rosso realizzato dai ceramisti da Albissola che domina dal soppalco.
Poi c’è la cucina. Grande. Professionale. Serena. Stracolma di pentole, ciotole, contenitori attrezzi e oggetti domestici di ogni tipo e di ogni luogo. È la cucina di una padrona di casa che quando cucina, cucina davvero. Una grande libreria raccoglie di libri di cucina di ogni paese. Si sta cosi bene che viene voglia di sostare un po’.
Bisogna lavare lavare lavare lavare, non pensare a nient’altro, pulire, non lasciare neanche una briciola, eliminare tutto, ogni traccia é una desolazione, la prova che qualcosa é stato sporcato, lo so bene che é impossibile far fronte a tutto questo sudiciume, ma bisogna provarci (…). Vede, gli angoli sono importanti, é lí che va a cacciarsi tutto quel che può sfuggire all’attenzione, pensiamo di aver finito e invece no, non é così, gli angoli sono pieni di residui, e se non li sgomberi subito si accumulano, aumentano, si radicano, fanno massa, saltano agli occhi, capisce, Marta ? negli angoli sta l’essenziale.
Nathalie Kuperman, La domestica, Codice Edizioni
La maestra Angela che abita la sua aula come fosse una casa è un esempio recente e lampante di quello che può significare vivere in uno spazio che “ha cura”: un luogo che ci affranca, che ci dà pace e sicurezza, ci fa ritrovare in noi e che ci dispone alla relazione. Si tratta di un’aula senza cattedra dove la maestra siede in mezzo ai bambini e che è arredata come se fosse una casa.
Ci sono tende, cuscini, tazze, piante, cesti porta giochi. C’è anche un angolo morbido, dove le storie si raccontano seduti per bene, comodi, per far sì che i pensieri entrino meglio. Siamo a Genova, dove Angela Maltoni, maestra all’Istituto Comprensivo Cornigliano, ha costruito il suo speciale angolo didattico.
«Ho sempre avuto aule variopinte e ricche di materiali – spiega – ma dall’anno scolastico 2008/2009, quando ho dato vita al progetto di sperimentazione didattica “Insieme per un futuro più equo”, ho allestito l’aula seguendo, in parte, le teorie di Celestin Freinet che coinvolgono attivamente i bambini nelle azioni didattiche. Il mio progetto prevede attività di bilinguismo, plurilinguismo e l’insegnamento secondo un curricolo interculturale in cui le differenze diventano risorsa di arricchimento reciproco. Questo ha reso necessario sfruttare anche le pareti, decorate con grandi cartelloni di alfabeti in varie lingue. Aver abbracciato scelte pedagogiche e didattiche diverse è stato il motore di tante piccole ‘rivoluzioni’ nel modo di insegnare. La scelta del metodo naturale per l’acquisizione della lettura e della scrittura e l’adozione alternativa al libro di testo hanno reso necessaria la creazione di uno spazio-biblioteca multiculturale all’interno dell’aula, con testi in tante lingue e la predisposizione di scaffali dedicati a custodire oggetti stimolanti per la scoperta della scrittura. La scelta inoltre del metodo narrativo e la proposta, ogni giorno, della lettura di un libro come avvio alle attività, ha portato alla creazione di un angolo morbido, con tanti cuscini colorati dove i bambini si siedono in cerchio, ascoltano il racconto ad alta voce e affrontano momenti di conversazione e discussione.
Un ampio spazio raccoglie i pupazzi e le marionette che vengono utilizzati non solo per il gioco libero ma anche per le drammatizzazioni, utili a far venire fuori i vissuti personali. La scelta di lavorare in gruppo e in modo cooperativo determina la disposizione dei banchi a isole e l’assenza della cattedra. Il materiale didattico come penne, matite, colori, gomme, è in comune, e viene disposto sulle isole in contenitori e usato liberamente da tutti. I bambini della mia classe sperimentale provengono da tante parti del mondo e si portano dietro la ricchezza di lingue e culture diverse. Questa modalità di lavorare in gruppo e di avere spazi liberi e coinvolgenti a disposizione li aiuta a socializzare più in fretta e a imparare ad apprezzare le diversità. La condivisione del materiale scolastico li abitua a una convivenza partecipata e accettata in cui tutti si sentono uguali».
Le “tante, piccoli rivoluzioni” della didattica hanno così inciso e condizionato lo spazio, che è diventato “casa”, una casa dove gli alunni di Angela imparano meglio, socializzano meglio, escono dalle lezioni senza traumi e nervosismi. Certamente il loro apprendimento risulterà migliore, e alla fine tutta scuola risulterà migliore.
Un cura dello spazio che ci piacerebbe pensare in ogni circostanza pubblica: gli uffici, le banche, gli ospedali!
Già, proprio e soprattutto gli ospedali, dove, come scrive Ida Farè -che è stata docente di Architettura al Politecnico di Milano- nel libro “Abitare la cura: riflessioni sull’architettura istituzionale” a cura di Sergio Marsicano, «si vive come in un altro mondo: camere asettiche, arredi gelidi e metallici, mobili immobili, finestre che non si aprono, bagni senza specchio, squallide stanze di attesa con quelle seggioline di plastica in fila lungo le pareti, dove ogni visitatore siede come messo al muro e dalle quali in cuor suo spera di allontanarsi al più presto. Insomma pare proprio che lo spazio sia la cenerentola dei luoghi di cura e che l’architettura sia una parente lontana e sconosciuta nei luoghi di malattia.»
Eppure, se guardiamo, fin dal 1860 c’era una attenzione in questo senso: Florence Nightingale, fondatrice della moderna assistenza infermieristica nel suo “Note sulla Cura” dedica un intero capitolo al letto d’ospedale che deve essere basso, di ferro, scostato dal muro da entrambi i lati, e non lontano dalla finestra in modo che il malato possa vedere fuori. Un altro capitolo parla della luce, di quale sia l’esposizione migliore, e che si lasci entrare il sole. Scrive: «Una leggera cortina bianca al capezzale e alla finestra una stuoia verde che si possa calare a volontà sono più che sufficienti perché dove è ilsole là è il pensiero.»
Frequentando le strutture ospedaliere possiamo invece ben notare che «proprio quando il corpo è fragile e bisognoso, tutto ciò che fa sentire bene e a nostro agio dentro lo spazio della casa viene totalmente dimenticato e come la vita dei pazienti sia determinata esclusivamente dalle logiche dettate dalla terapia in spazi sgombri, freddi, a volte abbandonati e comunque organizzati soprattutto in funzione delle attività di lavoro del personale medico.» (cit. Ida Farè)
Noi crediamo fermamente che poche esperienze di vita siano significative per l’esistenza, quanto l’abitare, crediamo che Casa significhi tracce, cura, atto magico, spazio “desiderato”, una vera risorsa che permette di ancorarsi a situazioni piacevoli, ricordi ma anche nuovi stimoli e quindi nuove opportunità, crediamo che Casa sia – in sostanza – il mantenimento della propria identità, che lo spazio vissuto non sia una scatola vuota e che abitare non significhi semplicemente “stare in un luogo”, ma anche costruire delle relazioni significative, dei rapporti con persone ed oggetti (in genere gli oggetti che l’abitazione contiene e custodisce sono le cose che si amano e che si sono scelte) che però, evidentemente, sembrano incompatibili proprio con la coatta esperienza ospedaliera.
Vorremmo che le strutture ospedaliere si umanizzassero non solo attraverso l’offerta di suppellettili utili a questo scopo ma anche – fondamentale – attraverso l’analisi dello spazio e la continua manutenzione da parte degli operatori per una consapevolezza costante del luogo e degli effetti benefici che può offrire a tutti (ricoverati, loro familiari e operatori stessi). Le persone ricoverate in un ospedale sono sotto stress, provano dolore e paura, vivono l’esperienza di ore di solitudine che sembrano infinite mentre la struttura ospedaliera in genere è fredda, non curata, deprimente. Si tratta perciò di cambiare l’atmosfera!, alleviare lo stress e l’ansia del paziente e incoraggiare la guarigione attraverso l’armonizzazione dello spazio, proprio come ha fatto la maestra Angela nella sua aula della scuola di Genova.
Come dice il filosofo Silvano Petrosino ci piace pensare alla casa come «un luogo dove l’uomo possa vivere senza vergogna e senza censure, un luogo dove la sofferenza resta sofferenza, dove il difetto resta difetto, la paura resta paura, ma tutte queste cose sono ospitate, non sono più negate. Un luogo pacifico dove si è accolti»